di Paolo Tibaldi 

La parola della settimana è “galaverna”. Una parola che, alla sola pronuncia, fa emettere un brivido freddo, poiché il suo significato non è soltanto quello di “brina” leggermente depositata su terreni agricoli, ma piuttosto qualcosa di ben più freddo, ossìa una gelata derivata da una nebbia, talmente fitta che trasforma il suo vapore in ghiaccio (nebia ch’a beuta); quest’ultimo, a forma di aghi e scaglie, non solo si deposita sulla superficie di campi e prati in posizione orizzontale, ma su alberi, siepi e ogni qualsivoglia vegetazione… ormai anche su automobili, tetti, marciapiedi e quant’altro stia a contatto con l’intransigente freddo invernale.

La prima volta che udii la parola, “galaverna” appunto, fu da piccolo in quel di Benevello, ascoltando i Trelilu, nel brano “Ven che ‘ndoma”. Chi non lo conosce?

(…) La galaverna ëd prima matin
a fa bianc ch’a smìja fiocà
mi ëm ricòrd j’eva ‘ncù ën matotin
con me bàrba al forn d’la borgà (…)

A proposito…chi di voi sa perché gli ultimi tre giorni del mese di Gennaio, i cosiddetti “giorni della merla”, si chiamano proprio in questo modo? Le versioni di questa leggenda sono svariate, addirittura tre o quattro, ma tutte quante riconducono al fatto che una merla, di colore bianco candido, per ripararsi dal rigido freddo, andò a rifugiarsi nei pressi di un comignolo fumante sopra un tetto.
Quando uscì dopo tre giorni, le sue penne bianche, erano divenute nere a causa del fumo e della fuliggine. Si narra che da allora, tutti i merli nacquero con le penne nere.