di Cristina Quaranta
Gennaio 1820, sembrava essere una banda perfetta, un capo e tre donne capaci di rubare e svignarsela senza problemi. Le loro origini coprivano buona parte del Piemonte meridionale. La patria di Guglielmo B. è Santo Stefano, nel Roero, Maria M. nata a Castagnito e Margarita si è unita a loro giunta da Mondovì, invece la vedova Maria, era nata a Sommaria Perno.
La loro specialità sono i furti nei mercati e nelle fiere, tutti recidivi e tutti già più volte rilasciati con l’atto di sottomissione mai rispettato. Margarita poi aveva scontato almeno un anno di carcere con sentenza pronunciata nel 1806 dal Tribunale di Cuneo.
Dodici, quindici rasi di panno grigio di buona qualità del valore di almeno sette soldi e più ogni raso, circa 60 centimetri, rubati al mercante Casetta durante il giorno di mercato in Canale procureranno due anni di catena al capobanda e alle tre donne tre anni di carcere da computarsi dal giorno del loro arresto avvenuto in aprile del 1819.
Naturalmente, l’essere recidivi ed aver perseverato nel mantener una pessima condotta va punito con l’esemplarità consistente nello stare esposti per mezz’ora al pubblico con appeso al collo il cartello dicente: ladri sul mercato. Per Guglielmo l’esemplarità deve ricordare gli anni di catena sentenziati, perciò sarà presto condotto per i soliti luoghi colla catena al piede. Per tutti è sottinteso l’indennizzo verso il derubato e nessuno tornerà libero se non avrà firmata ancora una volta la sottomissione di vivere in futuro da persona onesta, dabbene e darsi a stabile lavoro ma su tutto non frequentar più mercati e fiere.
L’Uditorio Generale di Guerra pronunciò anche la sentenza ai danni di Michele Branca, di Pinerolo, soldato nelle regie Truppe, ora detenuto nelle carceri correzionali, per il furto di fazzoletti, ai danni di due negozianti, Berbottino e Salmatoris, che tenevano il baraccone in Torino, sotto i portici della fiera. Veder rubare i fazzoletti di cotone nella sera del 14 gennaio fu uno spettacolo: infatti, Michele non li prese appesi al baraccone ma salì sul suo tetto dove si trovavano oramai già stipati dal Salmatoris, essendo tempo di chiusura del mercato. Fu colto in flagrante e arrestato dai Regi Carabinieri. Il furto di sette fazzoletti gli costò cinque anni di galera dopo esser stato sottoposto all’esemplarità del remo in spalla, condotto pei soliti luoghi[1].
Giuseppa e Giovanni: una coppia, e sebbene siano solo in due, sono a tutti gli effetti una banda, condividono tutto, non solo la vita fatta di ruberie ma anche la vita privata. Convivono nello scandalo da più di nove anni e cinque parti, i primi figli li ebbero mentre Giovanni era ancora ammogliato. Costituiscono una banda ma anche singolarmente sono tra il meglio dei lestofanti. Giovanni ruba vino dalle cantine usando chiavi false per accedervi, ruba denaro a mano armata e istiga gli amici a essergli complici sotto la minaccia di un coltello.
Giuseppa provvede al vitto trafugando meliga, castagne, uva e biada. Usa la scala per portar via le noci che essiccano nei fienili e perché no, quando capita, anche lana appena tosata. Non perde occasione di portar via denari dalle saccocce altrui. Insieme però sono un’altra cosa, il bottino risulta più ricco. Come dire che in due si lavora meglio. Tutto ciò si trovi a portata di mano viene preso, s’invola: tele di stoppa, lenzuola stese, lane, sete, alveari, da una cantina lardo e uova e dal pollaio le galline.
In un’altra parte del regno, invece la vedova Anna Maria, da molto tempo è arrabbiata col mondo ma molto di più col suo vicino al quale un giorno rubò un paio di galline prima di incendiargli il fienile.
Giuseppina invece, finì col confessare di aver derubato una chiesa di Exilles, portandosi a casa una tovaglia e una tovaglietta per asciugare le mani che si trovavano sull’altare della Cappella del Santo Suffragio: per un valore di trenta soldi. Con lei i giudici non usarono clemenza: dieci anni di carcere e la restituzione del maltolto.
La banda delle donne era composta da tre “Maria” e Giacomina.
Agivano in comunione o sole, entravano spesso nelle botteghe con la scusa di far acquisti e derubavano il mercante o la merciaia. Le stoffe in questione erano mussoline, o cotonine dette anche tela d’Indienna. Rubano stoffe e le restituiscono prima di scontare la pena e di essere esposte al pubblico col solito cartello al collo.
Altre invece si limitano ai furti di campagna per sfamare i propri figli.
La storia di Paola invece è tutta un’altra storia.
Paola non è una ladra, non lo è mai stata, ma si macchiò di un crimine orrendo, “aggiustando il cibo”.
Tentato veneficio nella persona di Gioan Battista Pertuso suo consorte. Una singolare e triste storia la sua, dichiarò il difensore: Paola era travagliata da quattro mesi di disagi portati dalla gravidanza, già matrigna e ancora madre di nuova prole del suo sposo:
dallo stesso marito si procurava il veleno ed ebbe a mescerlo in presenza di testimoni. Annunziava prima dell’atto le colpevoli sue intenzioni, e dopo il suo tentato veneficio sembrava non fosse in cuor suo pienamente consapevole del delitto.
Delitto tentato e non consumato – si disse – ma non per questo scema la nequizia dell’autore, qualunque sia stato l’esito del misfatto.
Giunge a Sua Maestà la supplica degli avvocati difensori della donna, perché si degni di commutare la pena di morte in carcere perpetuo:
“Alla sentenza di V.M. è ricorsa 3 o 4 volte l’imputata rea di tentato veneficio contro il marito e per lei donna misera sciagurata, abbandonata da ogni uomo vivente e per cui è muta ogni altra voce, implorano dunque i di lei avvocati patrocinatori credendola non immeritevole di commiserazione presso S.M.:
1) che è andata in compagnia di una certa Domenica Dalmazzo, a visitar suo marito che lavorava in Francia per chiedergli l’arsenico che lui stesso aveva acquistato.
2) che aveva trovato il marito in compagnia di una certa Apollonia C. ma ugualmente si coricò la notte con il marito il quale usò con lei replicati amplessi.
3) che dopo averle rimesso l’arsenico per due volte, prima dell’attentato, l’uomo si recò a visitarla a Villar Bobbio e dormì con lei ed in quelle notti usando i suoi diritti.
4) che come matrigna non ha mai maltrattato il figlio sordomuto di primo letto del marito ed era sollecita perché si pagasse la nutrice pel suo figlio.
5) che aveva dichiarato all’amica Anna molto tempo prima del misfatto di voler avvelenare il marito con l’arsenico, quantunque non fosse con lei solita ad altre intime confidenze.
6) che essendosi recata a casa sua una certa donna per fare l’impasto del pane, si fece dare un tozzo di quello e vi mescolò il veleno in sua presenza e altre persone.
7) che avvolto poi il pane in tal guisa in un foglio di carta, lo ridette alla donna raccomandandosi in presenza di testimoni, che badasse che non venisse nel cuocerlo, in contatto con altri pani.
8) il marito usò di lei in quella stessa notte.
9) il marito dopo il fatto l’aveva “ripresa” ossia rimproverata dicendole che aveva trovato il pane e l’aveva presentato all’Ufficio del Giudice, poi aveva, davanti testimoni, suggerito alla moglie di dire che il pane non era quello. Allora sembrò avessero messo rimedio a tutto. Poi l’uomo era ripartito per la Francia, come fuggiasco, pentito dell’accusa infamante che aveva rivolta alla consorte; la donna in seguito lo raggiunse e continuò a coabitare con lui sino a che la gendarmeria francese non pose fine a tutto questo arrestando la donna.
Lui dal canto suo si presentò ai Gendarmi per ottenerne il rilascio negando il tentato avvelenamento nei suoi confronti.
Nessuno si presentò all’Ufficio degli Avvocati dei poveri per testimoniare in favore della donna o perlomeno somministrare elementi in sua discolpa, onde dileguare ogni dubbio.
Così ora ammettono che qualora il fatto fosse pure così, nel modo come si manifestò, per le suddette circostanze, non possono far altro che rimettere ogni responsabilità di lor coscienza nelle mani di S.M.; hanno compiuto l’incarico del loro ministero e sembrano essere fiduciosi che la Real Persona scamperà della morte la donna come atto di sovrana grazia.
Vero è che riguardo la persona di Paola, il quadro non appare edificante, si parla di lei come persona instabile, ora avversa ora accondiscendente al marito; lo accoglie e lo respinge, dà prova di affetto e dovere poi si macchia di un tale delitto verso quel consorte scevro da timori. Agli atti ancora una lettera di supplica a nome del padre della donna, Francesco Avaro di Bricherasio. Il genitore implora che si muti la pena di morte in corsa con la prigionia perpetua o qualcos’altro che sarà a S.M. ben visa.
Nella supplica viene sottolineato che in famiglia vi sono altre figlie, sorelle della detenuta, ancora nubili e che avrebbero molte difficoltà ad accasarsi se su queste si spanderebbe l’ignominia del supplizio della parente.
Nella lettera che l’avvocato patrocinante il padre dell’accusata scrive al re, spiega le ragioni e racconta a modo suo la vicenda in cui è coinvolta della sventurata figlia e aggiunge che anche la gelosia può aver concorso nel mettere in atto il tentativo d’omicidio, cioè una delle cause che hanno scatenato il desiderio di avvelenare il consorte.
In Torino, il 2 maggio 1824 viene redatto un ultimo documento di relazione ed osservazione comprese le personali conclusioni di un giudice che sì vuol ancora una volta fare chiarezza sui fatti ma che tuttavia non sembra affatto propenso ad accettare alcuna supplica:
in oggi già le conclusioni del mio Ufficio si è per la pena di morte. Stimai essenziale di porre in evidenza in queste osservazioni il carattere sleale, orgoglioso e crudele di colei per cui oggi s’implora grazia. Il suo padre medesimo oggi si scuote all’estremo dei perigli, compatisce sommamente d’aver lasciato scostarsi dalla patria una figlia nubile, lasciata impegnare e disimpegnare a suo talento, e lasciata trattare così indegnamente il marito senza mai interporre la sua autorità per ricondurla al dovere.
Non nego che nel punto in cui scrivo un brivido mi rende lenta la penna, pensare che il Senato decide secondo le conclusioni fiscali, si vedrà strappare dal seno materno un innocente bambina e vedrà forse il marito medesimo con dolore straziarsi vedere perire quella giovane sposa che egli amava già con tanta passione. Ma in fin mi pare che così esiga la Giustizia, sostegno del più saldo dei Troni, legame più tenace di ogni umana società. Il mio voto è pel rigetto della supplica.
Paola sembra non meritare alcuna clemenza, sarà come previsto condannata al patibolo, Sua Maestà invece guarderà con occhio benevolo la piccola figlia, mandando un dispaccio alla Congrega di Carità di Pinerolo affinché possa trovarle un riparo, dopo l’esecuzione della madre. Il padre Giovan Battista Pertuso è a detta di tutti un miserabile che vive alla giornata del suo lavoro, già carico di altra figliolanza, errante, come si può pensare che possa prendersi cura di una figlia che gli ricorda gli atti criminosi della madre? Il giorno 23 maggio 1824 la piccola di cui non si conosce il nome, viene ricoverata presso la Congrega: il giorno precedente la madre, già non era più di questo mondo.
[1] Come indennizzo al derubato Berbottino si manda restituirsi i fazzoletti di sua spettanza, qualora esistano ancora presso l’Ufficio.