Testo e foto di Paolo Barosso
Le rovine del Gesiùn, nome popolare con cui è nota l’antica pieve di San Pietro di Livione (o Sugliaco), sorgono nei pressi del paese di Piverone, alle pendici della Serra d’Ivrea.

Attribuito a un periodo compreso tra il X secolo e la metà dell’XI, ma probabilmente d’origine più antica, l’edificio religioso, che ora si mostra al viandante come romantica rovina immersa nella quiete campestre, si richiama a una tipologia costruttiva inusuale per l’area, di cui si fatica a trovare riscontri anche nel resto del Piemonte.
Osservando le vestigia della chiesa balzano agli occhi i tre archi che separano il presbiterio dall’unica navata della chiesa, con pilastrini in pietra sormontati da capitelli a stampella di foggia arcaica, e il tiburio di forma cubica che, innestandosi sull’area presbiteriale, svolge funzioni di campanile. Proprio la soluzione dei tre archi divisori rimanda a schemi riscontrabili nelle chiese rupestri bizantine del Materano (X-XI secolo) o a fondazioni basiliane in Sicilia, facendo ipotizzare ad alcuni studiosi il passaggio in zona di maestranze provenienti da quei territori (C. Caramellino, G. Forneris, P. Oppesso).

Lo storico e saggista Romolo Gobbi avanza però un’altra suggestiva ipotesi, che collega la singolare struttura della pieve di Piverone alla presenza in loco d’una guarnigione di soldati bizantini, stanziata nel VI secolo a presidio del valico di Zimone, sito appena a nord del Gesiùn, allo scopo di respingere gli invasori provenienti da ovest. Nelle chiese orientali dei primi secoli dell’era cristiana era invalso l’uso del termine “bema” (dal greco antico), che nel mondo classico designava il luogo sopraelevato del tribunale da cui parlavano gli oratori di difesa e accusa, per indicare lo spazio dell’edificio sacro riservato al clero.

Tale area della chiesa, comprendente abside e presbiterio, veniva separata dall’assemblea dei fedeli ricorrendo a un elemento divisorio, che presto assunse la forma d’una bassa recinzione in pietra spesso sormontata da una trabeazione su colonne o pilastrini studiata per poter coprire con tende lo svolgimento di alcune parti della liturgia. Nel mondo bizantino e ortodosso la presenza del bema, nelle sue diverse declinazioni regionali, finì per venire meno, in conseguenza dei mutamenti liturgici, ma il termine continuò a essere adoperato per indicare genericamente lo spazio non visibile ai fedeli posto aldilà dell’iconostasi.

Tornando al nostro Gesiùn, si è ipotizzato che l’area compresa tra l’abside, di dimensioni ridotte, e i tre archi divisori svolgesse le funzioni proprie del bema nelle prime chiese orientali e che quindi i primi fondatori dell’edificio siano da identificarsi nei soldati bizantini della guarnigione di Zimone, desiderosi di avere un luogo di culto in cui celebrare secondo le proprie regole liturgiche.
Quando i bizantini se ne andarono, il piccolo tempio rimase, assumendo in seguito le funzioni di pieve di villaggio, destinata a servire la comunità che s’insediò in loco, fondando l’abitato di Livione o Sugliaco. Dal principio del XIII secolo, in concomitanza con i profondi cambiamenti che interessarono la geografia dell’insediamento umano in diverse zone del Piemonte, l’abitato si spopolò e gli abitanti si trasferirono poco più distante, confluendo nel borgo franco (locum francum) delle Coste di Piverone, formatosi dall’aggregazione di quattro villaggi già esistenti per iniziativa del comune di Vercelli, che aveva messo a punto l’operazione in funzione anti-eporediese.

Il nuovo centro abitato venne munito di strutture fortificate, oggi in parte sopravvissute, come evidenziato dalla massiccia Porta Orientale, torre-porta d’accesso al borgo un tempo completamente aperta dal lato interno (questa scelta, comune ad altre porte urbiche canavesane, era dettata da motivazioni pratiche perché, in caso di presa della torre, un quarto muro avrebbe offerto riparo agli assalitori, compromettendo la difesa degli assediati).

Con l’abbandono del villaggio la pieve perse con il tempo le proprie funzioni di parrocchiale, rimanendo isolata nella campagna e andando incontro a una lenta quanto inesorabile rovina.
Le vestigia della pieve, recuperate e messe in sicurezza, mantengono oggi una loro suggestione, accresciuta dalla splendida vista che si gode dal luogo e che abbraccia il bacino lacustre di Viverone contornato dalle vette alpine. Notiamo anche che l’edificio è collocato lungo una delle diramazioni della Via Francigena, che non va considerata come un unico percorso, bensì come un fascio di vie battute sin dal Medioevo dai pellegrini diretti nei luoghi simbolo della Cristianità.

Tutt’attorno alle rovine del Gesiùn prosperano vigne e frutteti: in particolare la zona è vocata alla produzione del vinoErbaluce, ottenuto dall’omonimo vitigno a bacca bianca tradizionalmente coltivato in Canavese e nel Piemonte orientale, dove è conosciuto anche come Greco novarese.