di Paolo Barosso*
Sulle alture del comune di Boca, nell’alto Novarese, circondato da boschi e vigneti, sorge l’imponente edificio del Santuario del Santissimo Crocifisso, che nel 2012 ha ottenuto il titolo di “Basilica minore”, assegnato a chiese di particolare importanza per motivi religiosi, artistici e/o storici.

Il sacro tempio, nelle grandiose forme neoclassiche in cui lo possiamo ammirare oggi, nasce dal felice incontro tra la devozione popolare, che s’era sviluppata attorno all’immagine ritenuta prodigiosa del Cristo morto in Croce, affrescata su una preesistente cappella votiva d’origine seicentesca, e l’ingegno del celebre architetto novarese, nativo di Ghemme, Alessandro Antonelli, che in Piemonte non ha bisogno di presentazioni, essendo l’artefice di capolavori conosciuti internazionalmente per l’arditezza architettonica, come la Mole Antonelliana a Torino e la Cupola di San Gaudenzio a Novara.

La devozione che alimentò nei secoli il culto del Santissimo Crocifisso di Boca, documentata da una nutrita serie di ex voto conservati nel Santuario, trova origine in due avvenimenti giudicati prodigiosi e testimoniati dalle cronache antiche, la guarigione di un ragazzo dall’epilessia e il salvataggio di un mercante aggredito da banditi annidati nella boscaglia, messi in fuga dall’improvviso suono delle campane e dalla visione d’una folla minacciosa, suscitati dall’intervento divino implorato dalla vittima.

I pellegrini, richiamati dall’eco dei prodigi, giungevano in loco raccogliendosi in preghiera dinnanzi al piccolo oratorio, che venne denominato “Cappella delle Anime Purganti”: l’immagine dipinta, tutt’ora visibile perché incorporata nel complesso santuariale, raffigurava infatti non solo Gesù morto in Croce, attorniato da Maria, San Giovanni e da un angioletto che impugna un calice per non disperdere il sangue effuso e zampillante dal costato del Signore, ma anche, nella fascia in basso, un gruppo di anime afflitte e sofferenti, condannate al Purgatorio, che elevano lo sguardo supplice verso l’alto (da qui il nome della cappella).

Il primo cantiere per la realizzazione di un santuario più ampio, che inglobasse l’antica cappella, rimediando alla carenza di spazi per l’accoglienza dei devoti, venne avviato nella seconda metà del Settecento, completandosi nel 1773 quando si celebrò l’inaugurazione della nuova chiesa, progettata da Domenico Magistrino, sacerdote di Maggiora, “con strepitoso concorso di pellegrini e generosissime offerte”.

Il giovane Alessandro Antonelli, al tempo studente di ingegneria e architettura a Torino, comparve sulla scena verso il 1820, poco dopo la conclusione dei lavori per spostare l’alveo del torrente Strona e far spazio al portico semicircolare destinato ad ospitare le Stazioni della Via Crucis.
Il geniale architetto, coinvolto dall’atmosfera di forte spiritualità e misticismo che aleggiava in questi luoghi, fornì i disegni per un edificio maestoso e solenne a pianta basilicale, con tre navate, campanile alto 119 metri, ampio pronao con sedici colonne e giro di portici lungo i fianchi della costruzione.

I lavori ebbero inizio nel 1822, suscitando perplessità e resistenze nella popolazione non tanto per la grandiosità del progetto, quanto soprattutto per l’idea maturata dall’Antonelli di spostare l’immagine sacra di Gesù morto in Croce, fulcro devozionale dell’intero complesso, al di sopra dell’altare maggiore, da collocare all’interno del nuovo “scurolo” di forma circolare, la cosiddetta “Rotonda”.
Il cantiere si protrasse per decenni, anche per il deflagrare delle ostilità dovute alle guerre del periodo risorgimentale, giungendo a conclusione, ma soltanto per quanto concerne la struttura essenziale, nel 1895, qualche anno dopo la morte dell’Antonelli, avvenuta a Torino nel 1888.

Il 30 agosto 1907 si verificò la tragedia, il crollo strutturale dell’immenso edificio, che il figlio dell’Antonelli, Costanzo, imputò a un concorso di cause, essenzialmente riconducibili alla cattiva qualità dei materiali impiegati per le colonne laterali, facilmente attaccate dalla forte “scossa atmosferica” scatenata dal violento temporale abbattutosi pochi giorni prima sulla zona.

Il cedimento non causò alcuna vittima – forse anche in questo frangente per effetto d’un miracolo, considerando che v’erano numerosi operai impegnati nei lavori di decorazione dell’interno – e si provvide in tempi celeri all’insediamento di una Commissione tecnica, nominata per gli accertamenti del caso, che però non si rivelò in grado di pervenire ad alcuna conclusione univoca, inducendo così Costanzo Antonelli alle dimissioni dalla carica di direttore tecnico.

Tuttavia, grazie alla ferma volontà del vescovo di Novara, si raccolsero i fondi per la ricostruzione del santuario, che venne ultimato, nella parti necessarie alla ripresa del culto, nel maggio 1918, procedendo però a un ridimensionamento del progetto originario con l’abbassamento dell’altezza totale di dieci metri e l’eliminazione delle navate laterali, sostituite da cappelle.

Il risultato, maestoso, è sotto gli occhi di tutti. Il Santuario del SS. Crocifisso è oggi inserito nei confini del Parco Naturale del Monte Fenera, ma l’interesse naturalistico e la bellezza paesaggistica dei luoghi, oltre naturalmente all’aspetto religioso e all’interesse architettonico per l’opera, non costituiscono l’unica attrattiva di Boca.

L’area è infatti altamente vocata per la coltivazione della vite, in particolare il Nebbiolo (localmente chiamato Spanna, nome da mettere forse in relazione con l’uva spionia o spinea citata negli scritti del naturalista latino Plinio il Vecchio) che, in concorso con una percentuale oscillante tra il 10% e il 30% massimo di Uva Rara e Vespolina, dà origine al vino Boca Doc.

La superficie vitata nel territorio di Boca, colpito dal graduale assorbimento di manodopera rurale nel distretto industriale di Borgomanero, s’era andata riducendo nel corso del Novecento, fino a giungere ad appena 10 ettari alla metà degli anni Novanta, con la prospettiva concreta che, in breve tempo, si sarebbe scritta la parola fine alla gloriosa storia della produzione vinicola locale, ormai rappresentata da pochissimi viticoltori, aziani ed eroici.
Fu allora che si ebbe l’inaspettata svolta con l’interessamento di un enologo austriaco, Alexander Trolf, e di un commerciante importatore di vini svizzero, Christoph Künzli, che, grandi estimatori del Boca, si rivelarono determinanti nel risollevare le sue sorti, fondando l’azienda vinicola “Le Piane” e ponendo le premesse per un processo di rinascita tutt’ora in corso. Oggi i vigneti sono tornati a guadagnare terreno su boscaglia e incolto, giungendo a occupare una superficie totale di circa 700 ettari.

Il vino Boca, insignito della Doc nel 1969, nasce sui terreni di cinque comuni – oltre a Boca, che ne è il cuore, Maggiora, Cavallirio, Prato Sesia e Grignasco – che presentano una particolarità tale da renderli unici nel panorama geologico piemontese, e non solo. I suoli di quest’area sono infatti composti da rocce vulcaniche (vulcanite), in particolare porfidi rosa e dorati, derivanti dal “supervulcano fossile” della Valsesia, un caso unico al mondo, attivo circa 290 milioni di anni fa.
Percorrendo la fitta rete di sentieri e strade poderali che attraversano le alture, capita di imbattersi in autentiche sopravvivenze di paesaggio storico: in particolare alcuni degli ultimi esempi rimasti in Piemonte di “alteno”, antico sistema di allevamento in cui le viti “maritate” (appoggiate) agli alberi da frutto (usati come tutori viti al posto dei pali di legno) erano associate alla coltivazione di cereali, e la tecnica di coltivazione alla “maggiorina” (dal vicino paese di Maggiora), giudicata ideale per terreni a notevole pendenza e battuti da forti venti.

L’allevamento alla “maggiorina”, tornato in auge grazie alla nuova generazione di vigneron della zona del Boca, si realizza piantando tre o quattro viti molto vicine, al centro di un quadrato di circa quattro metri per lato, e sostenendone i tralci, lasciati liberi di crescere, a mezzo di otto pali di legno, con l’aggiunta eventuale di un palo centrale. Anche in questo campo, e non solo in quello architettonico, si registrò l’intervento risolutore del geniale e poliedrico architetto Alessandro Antonelli, perché fu proprio lui a perfezionare il sistema, ovviando ad alcune criticità e definendo il giusto grado d’inclinazione dei pali di sostegno, in modo tale che fossero in grado di sorreggere il peso dei tralci carichi d’uva senza rischi di cedimento.
*Le foto del santuario sono di Paolo Barosso
Note bibliografiche:
Diego Boca, Alessandro Antonelli. Un protagonista dell’architettura, ed. Interlinea, 2015
www.santuariodiboca.it, sezione “Storia del santuario”