di Paolo Barosso
Il territorio della valle Versa astigiana, anticamente attraversato dalla strada romana detta “via levata” (forse perché sopraelevata rispetto al piano di campagna) che collegava Hasta (Asti) con Rigomagus (Trino Vercellese), custodisce autentiche gemme del romanico piemontese, come la chiesa della Madonna della Neve, situata in posizione isolata nelle campagne tra Castell’Alfero e Frinco, e la cappella di San Pietro, posta ai margini dell’abitato di Portacomaro.

Per raggiungere la chiesa della Madonna della Neve occorre seguire un intricato, ma gradevole, percorso tra le colline circostanti il paese di Castell’Alfero, che si presenta al visitatore come un compatto gruppo di caseggiati posto alla sommità di un’altura sul versante destro della valle Versa. Al vertice dell’abitato s’impone, per l’eleganza delle forme, frutto del talento creativo dell’architetto sabaudo Benedetto Alfieri, la nobile residenza barocca dei conti Amico, chiamata “castello” secondo l’uso piemontese, che sorgerebbe, secondo un’ipotesi non suffragata da prove certe, nell’area dove in precedenza esisteva la fortezza medievale indicata nel Codex Astensis come “Castrum Alferii”.

Provenendo dal fondovalle, la chiesa della Madonna della Neve, che spicca tra le numerose testimonianze del romanico astigiano e monferrino per il “delicato gusto cromatico della muratura, per le pregevoli sculture che ornano le monofore absidali e per l’unicità del campanile cilindrico”, appare oggi in parte occultata alla vista da un boschetto di alberi ad alto fusto cresciuti sui bordi dello sperone tufaceo cui poggia l’edificio.

La chiesa porta il titolo di Madonna della Neve, il cui culto tramanda la memoria del miracolo avvenuto, secondo la tradizione, nella notte tra il 4 e il 5 agosto dell’anno 358 quando una straordinaria nevicata estiva imbiancò a Roma il colle dell’Esquilino, mostrando così a papa Liborio e al patrizio romano Giovanni, che erano stati preavvertiti in sogno, l’esatto luogo in cui la Madonna desiderava che si fondasse una grande chiesa in suo onore, nucleo primigenio della Basilica di Santa Maria Maggiore.

Nelle antiche carte, però, la chiesa romanica della Madonna della Neve non è designata con questo titolo, bensì con le due diverse denominazioni di Santa Maria di Viale o di Viallo (documentata dal 1169) e di Santa Maria di Guidorabio o Guadarabbio (Guadarabium).
Il riferimento è a due villaggi, non più esistenti da molti secoli, che, nel periodo medievale, dovevano avere un legame con la chiesa o sorgere nelle sue vicinanze: la località di Viale o Viallo, indicata come uno degli insediamenti (insieme con Cassano, Lissano e altri) che, alla fine del XII secolo, su impulso del comune di Asti, che controllava il territorio, si aggregarono per dare vita al nuovo borgo di sommità di Castell’Alfero, e l’abitato di Guidorabio/Guadarabbio, detto anche Borgo San Pietro della Versa, fondato nella prima metà del XIII secolo ai piedi della collina, in corrispondenza di un guado sul torrente Versa, per un tentativo di ripopolamento dettato dall’urgenza di proteggere l’area di fondovalle dalle continue incursioni monferrine (nel contempo, i residenti ottennero lo status di cives Astenses, poi mantenuto anche dopo il nuovo trasferimento sul colle).

Esattamente com’era capitato per Viale o Viallo, anche il secondo insediamento di Guadarabbio, a partire dal XIV secolo, venne abbandonato, per il nuovo spostamento degli abitanti sulla collina, nella più sicura villa di Castrum Alferii, decretando così per l’antica chiesa di Santa Maria, non più utilizzata per le funzioni religiose al servizio dei villaggi scomparsi, un destino di lenta decadenza che, però, paradossalmente, come in molti altri casi di chiese medievali astigiane e monferrine, ne garantì (malgrado qualche rimaneggiamento in età moderna) la sopravvivenza come testimonianza architettonica della grande stagione romanica.

La chiesa della Madonna della Neve, pur rimasta isolata nel contesto campestre, venne ancora adoperata per un certo tempo come cappella cimiteriale, dato che attorno sorgeva un piccolo cimitero riservato alla sepoltura dei defunti residenti nelle cascine dei dintorni, ma anche questa destinazione si esaurì nel tempo.
Per quanto riguarda l’aspetto architettonico, sono risultati provvidenziali gli interventi di restauro condotti nei primi anni 2000, quando non solo si provvide al consolidamento dello scosceso fianco collinare, soggetto a pericolosi movimenti franosi e cedimenti del terreno, ma si mise mano alla struttura dell’edificio, riportando parzialmente alla luce, sulla facciata e all’interno, la tessitura muraria medievale, che era stata ricoperta e nascosta alla vista dalla sovrapposizione di uno strato di intonaco.

Partendo dall’esterno, caratterizzato in origine da una facciata a capanna, oggi resa nuovamente leggibile dall’intervento di asportazione dell’intonaco (descialbo), le parti più significative dell’edificio sono l’abside e il campanile, entrambi costruiti, secondo gli studiosi, verso la metà del XII secolo.
Suddivisa in tre campiture, la superficie esterna dell’abside, con il suo delicato gioco cromatico creato dall’alternarsi di arenaria e laterizio, presenta raffinate sculture a motivi in prevalenza vegetali (racemi) che ornano l’archivolto delle monofore e i capitelli delle due semicolonne addossate alla parete. Singolare, sempre nella tessitura muraria dell’abside, è il motivo a scacchi osservabile nella parte centrale, che richiama identiche soluzioni decorative presenti in altre chiese del romanico astigiano come San Nazario e Celso a Montechiaro.

Sul fianco sud si eleva il campanile che, per la sua forma cilindrica, rappresenta un unicum nel panorama del romanico astigiano e monferrino, ma è anche un rarità a livello generale: studi compiuti in tempi recenti, interpretando i richiami simbolici sottesi a questa soluzione inusuale, hanno ipotizzato che la forma peculiare del campanile, cilindrico ma innestato su una base quadrata, sia da ricondursi all’intervento di maestranze templari, lasciando quindi intendere una possibile presenza in loco dell’Ordine del Tempio, soppresso nel 1312, che sarebbe anche suffragata da altri indizi rintracciabili dentro la chiesa e nella toponomastica del territorio circostante.

L’interno della Madonna della Neve, ad aula unica rettangolare, colpisce soprattutto per gli affreschi trecenteschi rinvenuti durante la campagna di restauro, che ricoprono in particolare l’area absidale, dove troviamo, nel catino, un Cristo Pantocratore in mandorla attorniato dai simboli degli Evangelisti e altre interessanti figure collegate tra loro da un sottile gioco di richiami teologici (ad esempio la presenza, alle due estremità, dell’ultimo profeta del Vecchio Testamento e del primo martire cristiano, Santo Stefano, a evocare la continuità tra Vecchio e Nuovo Testamento). Sulle pareti laterali sono visibili lacerti di affreschi, come un volto del Cristo dall’espressione dolente, databili a un periodo precedente, forse addirittura risalenti alla prima fase costruttiva dell’XI/XII secolo.

Lasciando le campagne di Castell’Alfero, ci dirigiamo verso il paese di Portacomaro, la cui notorietà è dovuta soprattutto alla produzione vinicola, legata in particolate al Grignolino (i bastioni che sorreggono il nucleo antico del borgo, sopraelevato di una decina di metri rispetto all’abitato sottostante, ospitano oggi la Bottega del Grignolino).

Lungo la strada per Scurzolengo, affacciata sull’orlo dell’altura che sovrasta la via sottostante e raggiungibile a piedi tramite una ripida scalinata a più rampe, sorge la chiesa di San Pietro, perfettamente riconoscibile nel suo stile romanico che ripropone le caratteristiche della “Scuola del Monferrato”, con il portale d’ingresso sormontato da un arco falcato, con ghiera di laterizi e lunetta cieca, la facciata a capanna, caratterizzata da grossi blocchi lapidei in arenaria, squadrati e posati con accuratezza, e una parte sommitale, probabile frutto di ricostruzione, in laterizio.

Menzionata per la prima volta nel registro diocesano del 1345 come dipendenza dell’abbazia di San Bartolomeo di Azzano, la chiesa di San Pietro, la cui funzione originaria è dubbia, è fatta risalire come fondazione a un periodo antecedente, attorno al 1120 (datazione proposta da A.K. Porter nel 1917).

L’osservazione dell’interno ne rivela le due fasi costruttive: a una prima fase appartiene l’aula rettangolare, con la copertura lignea a capriate, mentre l’area presbiteriale, sopraelevata di un gradino, mostra una chiara impronta quattrocentesca, rivelata dalla volta a crociera costolonata e da altri indizi, come il motivo dipinto a tenda a padiglione con spicchi bianchi, rossi e blu che orna il centro della volta.

Il presbiterio è inoltre ornato da pregevoli affreschi, realizzati nel corso del Quattrocento, che mostrano affinità con pitture coeve dell’Astigiano: interessanti le figure di San Sebastiano e San Bartolomeo, quest’ultimo legato all’intitolazione del monastero astigiano da cui dipendeva la chiesa di San Pietro, e notevole, sulla parete di fondo, è la scena della Crocifissione, di forte impatto emotivo, che rivela analogie con l’affresco di medesimo soggetto visibile nella chiesa della Madonna della Cava a Montemagno d’Asti.
Note bibliografiche e siti internet
Franco Correggia, Alla scoperta del romanico astigiano, Edizioni del Capricorno, Torino, 2017
L. Pittarello, Le chiese romaniche delle campagne astigiane. Un repertorio per la loro conoscenza, conservazione, tutela, ed. Provincia di Asti, 1998
www.archeocarta.org, Carta archeologica del Piemonte
www.turismoincollina.it, Turismo nel cuore del Piemonte