di Paolo Barosso

Nel ricco patrimonio caseario del Piemonte, occupa un posto di rilievo il pregiato Montébore, formaggio tipico delle valli Tortonesi. Già citato in documenti del XII secolo, la tradizione ne fa risalire l’origine a un’epoca ancora più antica, tra i secoli IX e XI, quando i monaci benedettini insediati sul monte Giarolo ne avviarono la produzione.

Il Montébore deve il suo nome all’omonima borgata, frazione del comune di Dernice, situata in val Curone, sulla linea di spartiacque tra le valli Grue e Borbera. La curiosa forma a torta nuziale o a ziggurat, data dalla sovrapposizione di robiole dal diametro decrescente, s’ispirava, secondo la tradizione locale, all’antica torre del paese.

Esportato per secoli sui mercati genovesi e lombardi, secondo la tradizione il Montèbore fu l’unico formaggio ammesso al sontuoso banchetto nuziale di Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II d’Aragona del ramo di Napoli, e di Gian Galeazzo Sforza, figlio del duca di Milano, che venne celebrato a Tortona nel 1489. Maestro cerimoniere del banchetto, incaricato da Ludovico il Moro, fu Leonardo da Vinci, che ebbe il compito di studiare non solo la successione e la tipologia delle portate, ma soprattutto l’aspetto ludico e di intrattenimento, con danze e rappresentazioni sceniche ispirate alla mitologia classica. Vi è anche un filone narrativo popolare, la cui fondatezza storica non è verificabile, che riconduce proprio al genio di Leonardo l’invenzione della forma tipica a torta nuziale che ancora oggi contraddistingue il Montèbore.

La produzione del Montébore, cessata negli anni Ottanta del Novecento con il ritiro degli ultimi casari, è stata ripresa dal 1997 grazie all’iniziativa delle comunità locali e alle sperimentazioni condotte in sinergia dall’Istituto caseario di Moretta e dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, che hanno individuato, basandosi sulle testimonianze degli anziani, la procedura di caseificazione più idonea a riprodurre le caratteristiche del Montébore d’un tempo.

Il Montébore si produce con latte vaccino crudo in percentuale intorno al 70% (da vacche di razza Tortonese, a rischio estinzione, Bruna Alpina, Cabannina) in concorrenza con latte ovino per la quota restante (sono ammesse percentuali limitate di latte caprino).

Secondo le regole di lavorazione, la cagliata, dopo essere stata rotta due volte con un cucchiaio di legno, è posta nelle apposite formelle a forma di cilindro, dal diametro variabile, chiamate “ferslin” nella parlata locale, che erano in origine di terracotta e oggi di plastica. In seguito le forme vengono rivoltate per quattro o cinque volte e sottoposte a salatura manuale (rigorosamente con sale marino).

Foto tratta dal sito internet www.caseificioterredelgiarolo.it

Le forme, estratte dallo stampo, possono essere consumate fresche oppure dopo opportuna stagionatura per un periodo variabile da tre settimane a quattro mesi (in casi “estremi” si prolunga la stagionatura fino a dodici mesi), mentre la “costruzione” del cosiddetto castellino avviene sovrapponendo più robiole di diametro decrescente.

Oggi esiste un Consorzio di Tutela del formaggio Montèbore, di cui fanno parte più soci (tra cui il Caseificio Terre del Giarolo di Fabbrica Curone e la cooperativa Vallenostra di Mongiardino), che si profigge di promuovere questo tesoro caseario ritrovato delle valli Tortonesi attraverso azioni di tutela e di valorizzazione del prodotto. Tra queste, ci piace citare l’iniziativa “Adotta una pecora”, nata da un’idea della cooperativa agricola Vallenostra, che prevede la possibilità di adozione a distanza di una “pecora da Montébore” nell’ottica della salvaguardia delle razze animali del territorio (per maggiori informazioni: www.caseificioterredelgiarolo.it/adozione).