Testo e foto di Paolo Barosso
Adagiato sull’estremo bordo sud-occidentale dell’anfiteatro morenico eporediese, ambiente naturale modellato dall’espansione glaciale del Pleistocene, il paese di Candia vanta numerose attrattive, legate sia al contesto paesaggistico in cui l’abitato è inserito, con le colline rivestite di boschi e vigneti e il piccolo bacino lacustre che porta il nome del borgo, lago di Candia, sia alle significative testimonianze che costituiscono il patrimonio architettonico e storico-artistico del comune canavesano.
La prima tappa del percorso di visita che vi proponiamo è la salita al monte Santo Stefano, l’altura di 420 metri che sovrasta il paese e che consente a chi la raggiunge di godere di un panorama amplissimo, dalle propaggini collinari monferrine alla catena alpina, con le vette del Monviso e del Gran Paradiso. Lungo il percorso che conduce alla sommità, costeggiato da boschi, frutteti e vigne di Erbaluce, sorge la torre di Castiglione, originaria dell’XI secolo, la cui sagoma si trova raffigurata nello stemma comunale di Candia.
L’edificio, costruito in pietra e mattoni e restaurato (con modifiche nel coronamento) negli anni Settanta nel Novecento, è quanto rimane di uno dei due castelli che formavano il sistema fortificato di Candia nel periodo medievale, caratterizzato a cavallo dei secoli XIII e XIV dalle aspre contese tra i principi d’Acaia e i marchesi del Monferrato che, in competizione per la supremazia sul territorio, si appoggiavano, per meglio perseguire le loro mire egemoniche, alle due più potenti famiglie canavesane del tempo, i conti di Valperga, alleati dei monferrini, e i conti di San Martino, fedeli agli Acaia e poi ai Savoia.
Proprio nel corso del Trecento, durante la “guerra del Canavese”, descritta nelle sue varie fasi nel “De bello canepiciano”, opera del giurista e cronachista novarese Pietro Azario (1312-1367), il castello di Castiglione, che era il nome di una delle due “ville” da cui derivò l’attuale abitato di Candia, venne irrimediabilmente danneggiato e in seguito mai più ricostruito, lasciando ai posteri come memoria di sé soltanto la torre che oggi vediamo.
Proseguendo verso la cima del monte, in una radura tra i boschi, si trova l’antico priorato di Santo Stefano al Monte, una delle principali testimonianze della stagione romanica in Canavese insieme con l’abbazia di Fruttuaria a San Benigno e la cattedrale d’Ivrea. Collocata lungo una delle varianti canavesane della Via Francigena, tutte confluenti a Vercelli, la chiesa attuale venne costruita tra XI e XII secolo sul sito di un edificio di culto più antico, forse risalente al VI/VII secolo, e si trova menzionata per la prima volta in un documento papale del 1177 che sancisce la cessione del priorato benedettino, in origine (si ipotizza) dipendente dalla Fruttuaria, ai canonici valdostani dell’Ospizio del Gran San Bernardo.
Secondo le ricerche dello storico locale Forneris, la chiesa sorse, come spesso accadeva nei primi secoli dell’era cristiana, in un’area già interessata da culti pagani di matrice celtica, come si evincerebbe sia dalla persistenza d’una consuetudine di origine ancestrale, ancora in uso nell’Ottocento, consistente nell’applicare una chiave di ferro arroventata, custodita all’interno del priorato, per cicatrizzare le ferite derivanti dal morso di cani rabbiosi, sia dalla presenza, a pochi metri dall’edificio, di massi erratici ritenuti oggetto di venerazione nel periodo pre-romano.
La facciata, disadorna e essenziale nelle linee, rimasta orfana del campanile medievale, sostituito da quello odierno in epoca barocca, preannuncia, con la sua ripartizione a salienti, uno spazio interno suddiviso in tre navate, separate da archi sorretti da robusti pilastri quadrangolari, e terminanti in un’abside principale affiancata da due absidiole laterali più basse. L’area del presbiterio risulta sopraelevata per la presenza d’una vasta cripta semi-interrata che rappresenta l’ambiente più suggestivo dell’intero complesso.
Realizzata sempre nel corso del Medioevo, ma in una fase successiva rispetto alla fondazione della chiesa, la cripta a tre navate presenta dei pilastrini in pietra sormontati da capitelli lavorati e scolpiti con motivi ornamentali che, secondo diversi studiosi (Tosco), rivelano almeno in parte un’origine più antica, assegnabile al periodo longobardo, tra il VI e il VII secolo, quindi oggetto di reimpiego, pratica abbastanza comune nel Medioevo.
Scarse sono le tracce pittoriche rilevabili all’interno dell’edificio, per lo più risalenti ad epoche meno antiche, come gli affreschi presenti sulla volta della cappella detta “Il Paradiso”, che mostrano il probabile intervento (tra il XV e il XVII secolo) di artisti di stampo popolaresco e di ambito locale, mentre l’opera più preziosa che ornava la chiesa, la statua conosciuta come la “Madonna con Bambino dalle bacche rosse” (per l’atto in cui è colto Gesù Bambino, intento a cibarsi di piccoli frutti non ben identificati, forse fragole o acini d’uva Erbaluce), è stata trasferita da tempo, per ragioni di sicurezza, nella parrocchiale situata in centro paese. Realizzata nel corso del decennio 1410/1420, l’opera è lavorata in alabastro gessoso, dorato e dipinto.
La scultura, per i molteplici punti di contatto con la “Madonna del melograno” della Collegiata di Chieri, è attribuita da alcuni critici (Piretta) al fiammingo Jean de Prindall, che fu al servizio dei Savoia nei primi decenni del Quattrocento, protagonista di una stagione culturale e artistica di grande vivacità e raffinatezza che vide operare nel territorio degli Stati Sabaudi una folta schiera di maestri, miniatori, orefici, pittori, scultori, provenienti dalle lande nordiche, dal settentrione francese, dalle Fiandre, dalla Piccardia, dalla Borgogna.
Nella loro arte, d’impronta tardo-gotica, si ravvisa un sorprendente ventaglio di richiami culturali e influenze artistiche, tedesche, fiamminghe, provenzali, padane, che risultano rielaborate in soluzioni originali e innovative.
Addentrandoci tra le vie del paese di Candia, con i suoi rosseggianti tetti in cotto, perfettamente visibili, nel loro armonico interagire con il paesaggio circostante, dai punti di osservazione panoramica che si aprono lungo la salita al monte Santo Stefano, scorgiamo la sagoma merlata del castello, detto “Castelfiorito”, che deve l’aspetto attuale agli imponenti lavori di rifacimento condotti nella seconda metà dell’Ottocento, a cura dei proprietari dell’epoca, i Frisetti, secondo il gusto del revival medievale.
Forse risalente al primo Duecento, mancando però informazioni certe sui promotori della costruzione e sulle originarie caratteristiche dell’edificio, probabilmente un recinto contenente le abitazioni dei consignori, la fortezza poi ridenominata Castelfiorito era uno dei due siti fortificati che, come abbiamo spiegato in precedenza, erano stati costruiti a presidio del paese di Candia, sottoposto alla dominazione dei marchesi del Monferrato, come altre terre canavesane, fino al 1631 quando, con il trattato di Cherasco, venne ceduto, al pari di altri feudi monferrini, al duca Vittorio Amedeo I di Savoia, seguendo da allora in avanti le sorti dello Stato sabaudo.
Dopo il radicale rifacimento ottocentesco, che ha riguardato una costruzione già pesantemente alterata da interventi seicenteschi, dell’antico castello non sopravvive che la torre trecentesca, coeva, nelle sembianze attuali, di quella di Castiglione che domina dall’alto il paese.
Prima di lasciare il borgo antico per raggiungere le sponde del lago di Candia, facciamo ancora tappa nella chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo, edificio d’aspetto tardo manierista, ritenuto da alcuni studiosi di fondazione longobarda (a suffragare l’ipotesi la dedica a San Michele), che conserva all’interno consistenti vestigia delle precedenti fasi costruttive, riportate alla luce da una recente indagine archeologica. Gli scavi hanno evidenziato resti riferibili a tre periodi diversi, alto medievale, ottoniano (intorno all’anno Mille) e tardo romanico, in particolare tracce di un muro del V/VI secolo, la base di un fonte battesimale datato tra VI e VII secolo e parti di un velario del XIII secolo.
Concludiamo l’itinerario di visita con un’immersione nella natura, grazie alla vicinanza con il lago, bacino d’origine inter-morenica, circondato da paludi e canneti, la cui formazione è dovuta ai movimenti del grande ghiacciaio valdostano che, a più riprese nella preistoria, interessarono il territorio canavesano, portando alla genesi dell’anfiteatro morenico d’Ivrea.
Il lago, che oggi è sito protetto, annoverato tra le zone umide più importanti del Piemonte perché ospita numerosi uccelli acquatici e una ricca flora idrofila, fu in passato fonte di reddito per la popolazione di Candia, che vi pescava tinche e lucci per venderli nei mercati delle città vicine, avendo anche ideato, allo scopo di conservare il prodotto, un sistema di pozzi profondi da riempire di ghiaccio durante l’inverno.
Note bibliografiche:
AA.VV., Atlante castellano. Strutture fortificate della provincia di Torino, CELID, 2007
Maria Isabella Bellissimo, Un caso canavesano: il priorato di Santo Stefano al Monte di Candia Canavese, 2014/2015