di Paolo Barosso
Tratto da La mensa dei poveri e dei re, cultura enogastronomica popolare e di corte nelle terre sabaude – Giornate di Studi al Castello Ducale di Agliè – 18 e 19 settembre 2015
Introdotta al tempo dei Celti (VII/VI secolo a.C.), la vite si espanse in Piemonte a partire dall’Alto Medioevo, con l’avanzare del Cristianesimo, che necessitava di vino per esigenze liturgiche, e grazie all’opera dei monaci. Viticoltura monastica, dunque, ma anche viticoltura aristocratica: il concetto, elaborato da Roger Dion, illustra come la presenza d’una corte in un dato territorio abbia influito sullo sviluppo della viticoltura. Il duca Filippo l’Ardito nel 1395 vietò il Gamay facendolo sostituire con il Pinot Noir, che è oggi il monovitigno dei grandi rossi di Borgogna. Nel Piemonte medioevale, politicamente frammentato, spicca la corte dei Savoia Acaia che diede impulso alla produzione vinicola indirizzandone gli orientamenti con le proprie scelte di consumo e d’investimento.

Il gusto per il vino muta nei secoli: risulta che nel Medioevo si prediligesse il vino bianco, o di poco colore, anche negli usi liturgici, mentre i vini rossi si diffusero più tardi, ma ancora nel primo Seicento Giovanni Battista Croce, che descrive in un libro vitigni e vini della collina torinese, propone una gerarchia basata sui parametri di colore e di gusto, mostrando di anteporre i vini bianchi o rosati a quelli rossi ed elogiando dolcezza e leggerezza come criteri distintivi del vino eccellente.
Nell’organizzazione della corte sabauda approvvigionamento e conservazione del vino facevano capo a personale qualificato, variamente inquadrato a seconda delle epoche. Al tempo di Carlo II detto il Buono il bottigliere o sommelier, qualifiche corrispondenti a cariche distinte anche se con mansioni affini, era responsabile sia dell’acquisto e conservazione dei vini, sia della manutenzione delle cantine ducali.
Inoltre, su specifico incarico, era chiamato a tenere in ordine le strade di collegamento tra le zone vinicole, come il Canavese, e la capitale, anche allo scopo di garantire un flusso regolare di vino alla corte. In questo senso merita rilevare come, nei costi complessivi dell’acquisto, incidesse di più il trasporto che non la spesa per il vino in sè. Con il miglioramento delle infrastrutture l’incidenza dei costi di trasporto si riduce, favorendo così lo smantellamento della viticoltura nelle zone meno vocate, ma un tempo produttive per via della maggiore vicinanza alla corte.
Tra i fattori che influiscono sulle scelte di consumo, oltre alle prescrizioni mediche, al gusto personale, alle mutevoli mode, vi sono senza dubbio le acquisizioni territoriali e le vicende dinastiche. Il legame tra il Piemonte sabaudo e la Spagna di Filippo II favorì l’afflusso a corte di vini rossi di Spagna, molto graditi ad Emanuele Filiberto, che apprezzava anche la birra, cervogia, e la Malvasia di Candia.
I vini francesi, di Borgogna, Champagne, Bordeaux, furono sempre presenti a corte, sia per affinità culturale che per vicinanza dinastica, mentre, ad esempio, vennero ostracizzati alla corte pontificia di papa Paolo III perché accusati di patire il trasporto via mare, ma in realtà per contrasti politici. Al conseguimento del titolo regio, avvenuto nel 1713, fece seguito un maggior afflusso di vini stranieri a corte, dalle rinomate regioni vinicole di Francia, ma anche da Canarie, Tokaj, Mosella, Reno, Madera, Cipro.
Nel corso del Settecento si matura la consapevolezza di un necessario miglioramento qualitativo del vino, collegandolo da un lato alla modernizzazione delle tecniche di produzione, da attuarsi con il superamento di un certo conservatorismo del contadino piemontese che impediva l’adozione di metodi innovativi già collaudati nelle più progredite regioni vinicole francesi, e dall’altro lato ritenendo questa evoluzione indispensabile per risolvere i problemi di conservazione del prodotto e consentirne quindi l’esportazione.
Agronomi e funzionari sabaudi si convincono che il vino piemontese, se migliorato nella qualità, può avere successo sui mercati stranieri e si fanno promotori di tentativi di esportazione verso l’Inghilterra, che assorbiva già sete, risi e canape dagli Stati Sabaudi. Il progetto ebbe scarso seguito, sia per limiti nella qualità del prodotto, poco longevo, sia per l’inesperienza nel predisporre il trasporto, sia ancora per carenze infrastrutturali, evidenti nel mancato potenziamento del porto di Nizza e nella precarietà dei collegamenti con Torino.

La svolta si ebbe nell’Ottocento, con l’opera di Cavour e della marchesa Giulia Falletti di Barolo che, reclutando nelle proprie tenute enologi di fama come il francese Louis Oudart, apportarono alla viticoltura piemontese le competenze tecniche necessarie per ottenere un prodotto di qualità, in grado di competere con i grandi vini di Borgogna e Bordeaux.
Nacque così il Barolo in senso moderno e questo dinamismo indusse anche casa Savoia ad investire nel settore, con l’acquisto di tenute come Verduno e Pollenzo. Lo sviluppo della viticoltura piemontese, dopo la crisi causata dai tre flagelli di oidio, peronospera e fillossera, che parvero minarne la sopravvivenza tra fine Ottocento e primo Novecento, proseguì nei decenni successivi sino ai successi internazionali dei giorni nostri.



