Fonte: Kiteinnepal.com 

Nell’immaginario comune il Piemonte è terra di burro e inverni rigidi, inospitale quindi per l’olivicoltura. In realtà, indagando i toponimi subalpini, si scoprono etimologie che rivelano una presenza antica dell’olivo, in particolare nei secoli centrali del Medioevo, quali Olivola e San Marzano Oliveto nel Monferrato.

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Oltre all’etimologia, esistono tracce materiali, come la macina in pietra per frangere le olive conservata nel parco del castello di Pino d’Asti, ed evidenze documentali, fra cui un ordinato della Credenza di Ivrea, citato dallo storico Durando e risalente al XIV secolo, che imponeva ai proprietari di gerbidi e vigne sulle colline moreniche della Serra di mettere a dimora un albero di olivo (o di mandorlo) per ogni sapatura, antica unità di misura agricola piemontese corrispondente alla superficie che un uomo può zappare nell’arco di una giornata.

Gli studiosi riconducono l’introduzione dell’olivo in Piemonte ai Romani, anche se la sua coltivazione in area cisalpina venne presto penalizzata dalle importazioni di olio d’oliva dalle regioni più vocate dell’impero, come la penisola iberica o il Nord Africa. La fine dell’impero romano e l’avvento del Cristianesimo coincisero con una ripresa della coltivazione olivicola in alcune aree dell’attuale Nord Italia, come le sponde del Garda, per due ragioni: il venire meno dei tradizionali canali di importazione dell’olio d’oliva e il sopravvenuto fabbisogno di questo prodotto nei luoghi sacri per l’illuminazione e per esigenze di natura liturgica e nell’industria tessile per il trattamento della lana. In Piemonte l’alternativa all’olio d’oliva era l’olio di noci, mentre nell’alimentazione prevaleva la consuetudine nordica ai grassi animali.

Complesso monumentale della pieve di San Lorenzo e del battistero di San Giovanni Battista a Settimo Vittone - Alto Canavese
Complesso monumentale della pieve di San Lorenzo e del battistero di San Giovanni Battista a Settimo Vittone – Alto Canavese

Fu così che, dove possibile, piante di olivo vennero messe a dimora nelle adiacenze di pievi e abbazie e ancora oggi alberi plurisecolari sopravvivono in questi luoghi. E’ il caso del complesso monumentale della pieve di San Lorenzo e del battistero di San Giovanni a Settimo Vittone, nel tratto canavesano della valle della Dora Baltea, che, fondato nel IX secolo, è attorniato da un gruppo di olivi storici (cioè esemplari con almeno cento anni d’età).

Cristo benedicente in mandorla - affreschi interni alla pieve di San Lorenzo a Settimo Vittone
Cristo benedicente in mandorla – affreschi interni alla pieve di San Lorenzo a Settimo Vittone

La coltivazione dell’olivo, nelle aree più vocate del Piemonte come Canavese e Monferrato, si espanse nei secoli centrali del Medioevo, in particolare tra l’anno Mille e la seconda metà del Duecento, in corrispondenza di quell’optimum climatico medievale che portò sull’Europa un rialzo delle temperature. L’olivo, infatti, necessita di calore, ma tollera comunque bene temperature sino ai 7 gradi sotto zero e, nelle zone fredde, una volta superati i primi rigori invernali, può sopravvivere senza danni sino a 12 gradi sotto lo zero. Un altro fattore avverso all’olivo è l’accumulo di acqua nei terreni: per questa ragione si prediligono appezzamenti inclinati (per far defluire l’acqua in eccesso), esposti a sud e con una composizione sabbiosa tale da ridurre il ristagno idrico.

Olivi a Settimo Vittone
Olivi a Settimo Vittone

Spesso l’olivo nel Piemonte medioevale era coltivato in consociazione con lo zafferano, richiesto in farmacia e profumeria, ma anche come sostanza tintoria e spezia, e il mandorlo.

Con il raffreddamento climatico del XIV secolo, che pose fine al cosiddetto periodo caldo medioevale, la coltivazione dell’olivo si contrasse, lasciando spazio nelle aree collinari alla viticoltura, per poi ricomparire in tempi recenti grazie alla passione di alcuni coltivatori che nel 2001 a Vialfrè hanno costituito l’ASSPO, Associazione Piemontese Olivicoltori.

Sempre in Canavese, a Settimo Vittone, opera oggi un importante Frantoio Comunale che, ricavato dall’antica peschiera inaugurata da Maria José nel 1930, opera dal 2011 raccogliendo olive dai coltivatori sparsi tra questa zona e la bassa Val d’Aosta.

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I documenti ci rivelano che a Settimo Vittone, dove la coltivazione dell’olivo integra attività tradizionali come la produzione vinicola e l’allevamento del bestiame (tradizionale in ottobre è la Desnalpà, che celebra la discesa delle mandrie dagli alpeggi), a fine XIX secolo vennero trapiantati presso il castello Bollo alcuni esemplari d’olivo provenienti dalla Liguria, da cui nel 1931 si ricavarono una trentina di chili d’olio (Donna, 1943). Tra i coltivatori oggi attivi ricordiamo l’azienda Giovanetto (www.giovanettovini.it) che, nata nel 2005 in borgata Montestrutto, affianca alla produzione di vino la coltivazione di olivi. Sui terrazzamenti alternati a rocce che modellano i fianchi delle montagne l’azienda coltiva vitigni autoctoni come il Nebbiolo Picutener, la Vernassa o Neirét dal picul rus e il Neretto, da cui ricava Canavese Nebbiolo e Canavese Rosso. In base ad uno studio della Regione Piemonte, le qualità dell’olio d’oliva piemontese, ricavato oggi in prevalenza da olivi della varietà Leccino, sono in generale da ravvisarsi in valori molto bassi di acidità, alto contenuto di acidi monoinsaturi (tra cui l’acido oleico) e bassi polifenoli totali, il che pregiudica la conservabilità del prodotto, ma è all’origine del caratteristico sentore fruttato leggero e poco amaro.

Paolo Barosso