di Arconte

Questa storia valsusina inizia a Bussoleno il 21 febbraio 1876. Nella osteria della Bella Venezia tre o quattro brigate di contadini avvinazzati sono seduti a diverse tavole. Certo Ignazio Tomassone rompe sbadatamente un mezzo litro e si rifiuta di pagare il prezzo che gli viene richiesto dalla padrona dell’osteria.

Suo cugino, Felice Tomassone, soldato nelle compagnie alpine istituite nel 1872, si offre di pagar lui, ma Ignazio non vuole. La discussione si fa più viva e minacciosa. La padrona manda a chiamare i Carabinieri, ed ecco che entra il Carabiniere Occhiena, il quale, dopo aver inutilmente cercato di comporre la controversia alle buone, si dispone a prender nome e cognome dei contendenti.

Allora Ignazio Tomassone con un violento urto getta il Carabiniere sopra un tavolo, e un altro, certo Giuseppe Brangetto, afferra lo stesso Carabiniere per i capelli, come per impedirgli di reagire. Il Carabiniere si solleva, con un pugno manda a rotolare Brangetto, poi agguanta Ignazio Tomassone per arrestarlo e portarlo fuori. Chi si alza di qua, chi di là, e intanto il bravo agente della forza pubblica trascina nella via l’arrestato. Mentre sta per uscire, certo Augusto Garino, appostato presso la porta, gli conficca due volte nella schiena una lunga lama di coltello. Tuttavia il Carabiniere continua a fare il suo dovere e vedendo Felice Tomassone con la divisa da soldato alpino, chiede che gli presti man forte. Questi invece sguaina la daga, invita il Carabiniere a battersi con lui, gli mena un altro colpo e poi si dà alla fuga.

Sopraggiungono altri Carabinieri, assicurano colle manette Ignazio Tomassone, e intanto Occhiena cade a terra in un lago di sangue per tre ferite due delle quali mortali. Trasportato alla caserma, l’infelice Carabiniere muore dopo due ore di spasimi.

Di lì a un poco si presenta alla caserma un ubriaco, Giovanni Davi, per domandare che Ignazio Tomassone venga messo in libertà. Il Brigadiere lo ferma, gli trova due macchie di sangue fresco sulla camicia, gli chiede spiegazioni e, poiché non gli appaiono soddisfacenti, lo arresta.

La notizia della morte del Carabiniere giunge a Torino.

La «Gazzetta Piemontese» del 22 febbraio 1876, nella Cronaca nera scrive: «Questa notte» un carabiniere di Bussoleno è stato ucciso in una rissa fra soldati e borghesi da un colpo di baionetta nel ventre. La ricostruzione è inesatta e pare voler sminuire il ruolo omicida del soldato coinvolto nel fattaccio.

Intanto a Bussoleno le indagini proseguono.

Vengono arrestati Felice Tomassone, che ha invano tentato di varcare la frontiera, Giuseppe Brangetto e Augusto Garino.

I dibattimenti si svolgono nei giorni 22, 23, 24 e 25 maggio 1877 alla Corte d’Assise di Torino. La cronaca giudiziaria della «Gazzetta Piemontese» del 27 maggio 1877 è opera di Basilius.

Presidente della Corte d’Assise è il cavalier Roggeri.

Il Pubblico Ministero cavalier Torti – che Basilius definisce «valentissimo» – sostiene l’accusa. I difensori sono, per i due Tomassone e per Giuseppe Brangetto, l’avvocato Delvitto, per Augusto Garino, l’avvocato Aimery, per Giovanni Davi, l’avvocato Giovanni Paolo Basilio che, con lo pseudonimo di Basilius, scrive le cronache giudiziarie della «Gazzetta Piemontese»!

Gli accusati cercano di discolparsi invocando la scusa dell’ubriachezza.

Il Pubblico Ministero vuole dimostrare che questa scusante non regge e sostiene la sua affermazione con una citazione dell’insigne criminalista Francesco Carrara (Lucca, 1805 – 1888).

Il verdetto dei giurati è severo: soltanto Giovanni Davi viene assolto; Felice Tomassone e Augusto Garino sono condannati ai lavori forzati a vita; Ignazio Tomassone e Giuseppe Brangetto a venti anni di lavori forzati.

Il processo ha un curioso seguito letterario.

Quando il Pubblico Ministero ha citato i libri del professor Carrara per aggravare la posizione degli accusati, uno dei difensori ha pensato bene di fare la singolare asserzione che il professor Carrara non s’intende di ubriachezza, perché non ha mai bevuto altro che latte ed acqua. Questa peregrina dichiarazione non pare avere convinto i giurati, ma induce qualche bello spirito a scrivere questo epigramma, nello stile del compianto cavalier Antonio Baratta:

È un dotto – chi lo nega? – il professor Francesco,

Ma non beve mai altro che d’acqua e latte fresco,

Dunque a parlar di sbornie non se ne intende affatto

E a’ libri suoi chi crede in tal materia è matto.

Qui si vuole un perito fuor dell’ordinario,

E sia pur del foro… ma sia del vinario.

Concludiamo un breve commento sui protagonisti di questa vicenda.

Ignazio Tomassone appare come il classico personaggio prepotente ed arrogante che, come si dice in piemontese, a l’ha ‘l vin gram (ha il vino cattivo, cioè diventa cattivo quando è ubriaco).

Questi prepotenti, di solito, non vengono emarginati dai compaesani, anzi riescono spesso a trovare seguaci e sostenitori esaltati, come quel Giuseppe Brangetto, degno compare di Ignazio Tomassone, e come quell’Augusto Garino che, per “aiutare” un compaesano, arriva a comportarsi da assassino vigliacco e infido.

Il personaggio per noi più interessante è il soldato alpino Felice Tomassone.

Va premesso che, a quel tempo, chi portava l’uniforme dell’Esercito italiano si sentiva direttamente coinvolto nella tutela del buon ordine: nelle cronache torinesi dell’epoca si legge spesso che soldati, sottufficiali ed ufficiali sono intervenuti spontaneamente per fermare ladri in fuga, per bloccare borsaioli in azione e per sedare risse fra teppisti, da soli o in aiuto a Guardie di Pubblica Sicurezza, a Guardie municipali ed a Carabinieri.

Felice Tomassone, in un primo momento è stato educato e conciliante, visto che voleva pagare il litro rotto dal cugino. Ci piace credere che se la rissa non fosse avvenuta a Bussoleno, suo paese di origine, ma in un altro comune, Felice sarebbe intervenuto in aiuto del Carabiniere in difficoltà. A Bussoleno, invece, dove era conosciuto dai presenti, non si sentiva più un onesto cittadino con la divisa dell’Esercito: nella sua mente venivano a prevalere gli istinti tribali di difesa del clan familiare (il cugino) da un “pericolo” esterno (il Carabiniere). Ci pare significativo di questo atteggiamento il fatto che Felice abbia invitato il Carabiniere ad una sorta di duello rusticano, duello che di fronte ai compaesani doveva significare «Io non aiuto un Carabiniere ad arrestare mio cugino!». Il vino, togliendo i freni inibitori, portava in superficie la reale mentalità dei protagonisti, insofferenti all’intervento esterno di una autorità, percepita come ostile o addirittura nemica del loro piccolo mondo locale.