di Arconte
Dalla mattina del 12 febbraio dell’anno del Signore 1847, a Sommariva del Bosco l’intera popolazione chiacchiera, discute, commenta. Non si parla della situazione politica del Piemonte, insolitamente turbolenta dopo anni di immobilismo, e neppure della grave crisi economica che ha colpito l’Europa.
Si parla dell’uccisione dell’ostessa della Croce di Malta, Giovanna Negro, avvenuta nella notte. E, fatto ancor più clamoroso, l’uccisore della donna è uno dei Carabinieri della locale caserma. Un Carabiniere che uccide? Roba da matti!
Per apprezzare a fondo lo stupore degli abitanti di Sommariva in quella mattina del 1847, è necessaria una premessa. Bisogna chiarire cosa erano i Carabinieri nel regno di Sardegna a metà Ottocento.
I Carabinieri Reali, istituiti nel 1814, erano il primo Corpo dell’esercito, con incombenze assai numerose. Rappresentavano una polizia ben preparata, diffusa in modo capillare su tutto il territorio, formata da militari professionisti addestrati ed esperti, incaricati della repressione e della prevenzione dei più disparati reati nei più diversi ambienti, dalle campagne agli ambienti aristocratici cittadini.
Alla loro preminenza sugli altri militari dovevano corrispondere fedeltà, spirito di corpo e obbedienza a tutta prova. La dedizione del Carabiniere all’Arma doveva essere totale.
Il Regolamento Generale dei Carabinieri del 1822, fra i suoi 631 articoli, sconsigliava apertamente il loro matrimonio e si preoccupava che il Carabiniere trovasse altrove le gioie che gli erano negate in famiglia: “L’inclinazione al vino, alle donne, al giuoco, abbominevole per qualunque soldato, è fatale per un Carabiniere”.
I comandanti delle caserme periferiche (le stazioni) dovevano vigilare affinché i loro sottoposti, quando per servizio erano in relazione con gli abitanti del paese, non fossero coinvolti in relazioni amorose. Sarebbe stato gravissimo l’amoreggiare con donne sposate, ma sarebbe stato anche riprovevole il frequentare una donna nubile con l’intenzione di sposarla.
Anche il protagonista della nostra storia, il Carabiniere a cavallo Felice Formento, nato a Ceva, di trentacinque anni, è stato catechizzato secondo questa linea di pensiero. Chissà quante volte i superiori gli hanno detto e ripetuto queste indicazioni, magari in piemontese e con qualche fiorita espressione da caserma. Ma Felice Formento, da quando è giunto alla caserma di Sommariva del Bosco, non riesce più a mettere in pratica queste regole.
Formento è entrato in relazione intima con Giovanna Negro, moglie di Bernardino Abrate, esercente dell’osteria della Croce di Malta. Il forte riserbo dei documenti processuali ci impedisce di approfondire i vari aspetti di questa relazione, il ruolo del marito, il carattere della donna e quello di Formento. I documenti tacciono e invano cercheremmo dei pettegolezzi nei giornali dell’epoca: nell’anno del Signore 1847, a febbraio, l’unico giornale è la Gazzetta Piemontese, che contiene le cronache di Corte e qualche inoffensiva notizia esotica. La cronaca nera è bandita.
Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 1847, Formento si è recato nell’osteria della Croce di Malta per incontrare Giovanna Negro. Era evidentemente inatteso, visto che ha trovato Giovanna abbracciata ad un altro uomo (forse il marito?). Fatto sta che la donna reagisce insultando pesantemente Formento e questi, folle di gelosia, estrae la pistola d’ordinanza e le spara: un solo colpo, al cuore, che ne causa l’istantanea morte.
Un fatto di estrema gravità, dunque, inaudito, tale da alimentare a Sommariva infinite chiacchiere e molteplici commenti.
Per il brigadiere Berardengo, comandante della caserma di Sommariva del Bosco, saranno certo iniziati dispiaceri, preoccupazioni, rimproveri dei superiori. Avrà pensato che doveva far applicare con maggior solerzia quanto indicato dal minuzioso Regolamento Generale del Corpo dei Carabinieri Reali: “Qualunque soggetto che possa distrarre il Carabiniere dall’attenzione continua ch’egli deve avere per l’eseguimento del suo dovere deve essere troncato nel suo principio e represso”.
Formento, dopo l’omicidio, si dimostra disperato e forsennato.
Tenta ben due volte il suicidio. La prima volta lo stesso 12 febbraio, presso Bra. Con un colpo di falce si provoca una grave e pericolosa ferita al collo. Viene ricoverato nell’ospedale di Bra e qui, il 15 febbraio, compie un atto autolesionista. Con un pezzo di vetro, si infligge una grave ferita allo scroto, da cui fuoriesce il testicolo destro.
Viene bloccato, calmato e curato. La grave ferita scrotale guarisce soltanto al 15 aprile successivo. E dobbiamo dire che Formento è stato fortunato, visto che, in un’epoca che ignora gli antibiotici, la ferita poteva provocare una peritonite mortale.
Formento viene processato dalla Corte di Appello di Torino nel febbraio 1849. Dall’omicidio sono passati due anni, soltanto due anni, ma il mondo è cambiato: vi è stato il fatidico 1848, la concessione dello Statuto, la prima campagna della prima guerra di indipendenza, l’entrata in vigore di un nuovo codice di procedura criminale con processo pubblico e sentenza fornita di motivazione.
Formento, detenuto, è accusato:
1 – di omicidio volontario di Giovanna Negro, commesso per motivi di gelosia, e verosimilmente anche in seguito a provocazione.
2 – di mancato suicidio.
Lo giudica la Prima Classe Criminale della Corte d’Appello di Torino, Presieduta dal Conte e Commendatore Leonzio Massa Saluzzo.
Formento confessa di avere ucciso Giovanna Negro, perché gli insulti che la donna gli ha rivolto quando l’ha scoperta con un altro, lo hanno fortemente scosso e lo hanno gravemente provocato. Due testimoni, Berardengo e Marucco, testimoniano in modo conforme a quanto asserisce Formento.
Che la provocazione sia stata grave, i giudici non lo mettono in dubbio: “Che una tale commozione dovette naturalmente nell’accusato essere più istantanea, e violenta, in quanto che alle espressioni ingiuriose della donna fra gli amplessi di un altro contro esso proferite, si associava l’idea dell’ingratitudine, e del tradimento”.
Concedono quindi per l’omicidio le circostanze attenuanti, stabilite dal Codice penale, “regolando inoltre la pena con le norme stabilite dal Codice penale militare”.
Quanto al tentativo di suicidio, i giudici non ritengono necessario il ricorso a consulenti medici, per ottenere quella che oggi chiamiamo una perizia psichiatrica. Sulla base di una semplice analisi del comportamento di Formento dopo l’episodio autolesionista, giudicano l’imputato non responsabile dei suoi atti.
Scrivono infatti, nel dispositivo della sentenza, “… che gli stessi strazi dall’accusato commessi sulla sua persona, l’assoluta mancanza in esso della loro reminiscenza, il suo temperamento assai suscettibile e facile ad alterarsi, e lo stesso omicidio da lui consumato su una persona in cui aveva riposto il suo affetto, erano cause ben più che sufficienti a produrre in lui un furore morboso, e l’assenza della ragione, da rendergli non imputabile l’azione”.
La sentenza del 23 febbraio 1849 dichiara quindi Felice Formento colpevole di omicidio, commesso però nell’impeto dell’ira in seguito a grave provocazione, e non imputabile del secondo capo di accusa (tentato suicidio). Formento è condannato alla reclusione militare per tre anni, ad indennizzare gli eredi della morta e alle spese.
Sentenza maschilista? Forse, se letta con la nostra attuale mentalità, ma perfettamente in linea con le concezioni dei benpensanti del 1849, cui appartengono i conformisti giudici della Corte di Appello di Torino. Ogni considerazione diversa sarebbe anacronistica. Anche le valutazioni psicologiche di Felice Formento, sulla base della sola sentenza di condanna, rischiano di essere lacunose e anacronistiche. Ci piace però credere che Formento, convinto di avere “peccato” nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a causa di una donna, abbia tentato di automutilarsi per punirsi.
Semplice ipotesi, formulata da un dilettante. Gli esperti del tempo non si sono pronunciati: mancavano ancora nove anni alla nascita del padre della psicanalisi, Sigmund Freud.