di Paolo Barosso
L’insediamento monastico di Montebenedetto, nel territorio di Villarfocchiardo in valle di Susa, è considerato dagli studiosi una eccezionale testimonianza architettonica, forse l’unica a livello europeo, di “Certosa primitiva”, struttura che conserva cioè intatti, non avendo subito rimaneggiamenti nel corso dei secoli aldilà dei guasti dovuti agli eventi alluvionali, la planimetria e l’aspetto di un monastero certosino come doveva apparire tra la fine del XII secolo e il principio del XIII.

In quest’angolo appartato della valle di Susa, nascosto tra boschi e pascoli, i “monaci bianchi, provenienti dall’insediamento della Madonna della Losa sopra Gravere, prima fondazione certosina in valle di Susa, si stabilirono al principio del Duecento, avendo ottenuto il permesso del conte Tommaso I di Savoia, signore di questi territori.
L’origine dell’ordine monastico certosino risale all’anno 1084 quando San Bruno di Colonia, conosciuto anche come Brunone o “Bruno Gallicus”, nato in terra germanica e insegnante di lettere a Colonia, ma per anni canonico nella cattedrale di Reims in Francia, fonda nel cuore del massiccio della Chartreuse (tra Grenoble e Chambéry), con l’appoggio del vescovo Ugo di Grenoble, la Grande Chartreuse. Coniugando anacoretismo (il ritiro in solitudine) e cenobio (la vita in comune), San Bruno, insieme con sei compagni, diede vita a un centro monastico, soprannominato il “Deserto di Chartreuse” per la collocazione in un luogo remoto e impervio tra i boschi, che sarebbe divenuto in pochi anni la “Casa madre” dell’Ordine certosino (il nome deriva da “Carthusia”, versione latina del toponimo Chartreuse).

Pur in assenza di una Regola scritta da San Bruno, lacuna che sarà colmata più tardi con la stesura delle “Consuetudini” (definite “Statuti” dal XIII secolo) per mano di Guigo I, quinto successore di Bruno alla guida dell’Ordine, già negli anni seguenti i “monaci bianchi” si mossero verso l’Oltralpe lungo la direttrice della valle di Susa, costruendo chiese e gettando le basi di nuove comunità grazie alla generosità di signori laici disposti a donare terreni e concedere diritti. Fu così che i “fratres carthusienses”, nella loro continua ricerca di luoghi remoti, il cosiddetto “deserto”, in cui condurre un’esistenza solitaria, al riparo dai clamori del mondo, s’insediarono sulle montagne valsusine, stabilendosi dapprima in località Losa sopra Gravere e poi, all’inizio del XIII secolo, nel sito di Montebenedetto.
Il complesso architettonico di Montebenedetto, sebbene mutilato in alcune parti dalla disastrosa piena del rio delle Fontane che si abbatté in zona nel 1473 devastando in particolare il “Chiostro grande” con le celle dei monaci, appare ben conservato nella sua linearità architettonica, conforme alle prescrizioni certosine. E’ oggi di proprietà della Regione Piemonte, che l’ha inserito nell’area protetta del Parco delle Alpi Cozie, restaurandolo e aprendolo alle visite.

In base alle Consuetudini e agli Statuti dell’Ordine, la struttura architettonica delle “certose”, concepite come luoghi di nascondimento, meditazione e penitenza, doveva riflettere i pilastri portanti della Regola certosina, come la ricerca della solitudine interiore, la separazione dal mondo, l’ideale eremitico. Da queste premesse derivano l’essenzialità di linee e la sobrietà nei decori che si osservano come tratti caratteristici delle prime fondazioni certosine, ispirate, anche nella collocazione naturale e nella disposizione degli spazi, al prototipo rappresentato dalla Grande Chartreuse di Grenoble.
Tratto qualificante gli insediamenti certosini, rimasto in vigore per tutto il periodo medievale, era la suddivisione del centro monastico in due nuclei distinti: la casa “alta”, chiamata “eremus” o “domus superior”, che, considerando la prevalente localizzazione delle certose in territori montani, faceva derivare la propria denominazione dall’essere situata più a monte, e la “domus inferior” o casa bassa, chiamata poi “Correria”, riservata ai monaci conversi (che prendono i voti, ma si dedicano al lavoro anche al di fuori della propria cella e della certosa) e costruita a una quota più bassa.

Il perimetro esterno della certosa, tracciato dai monaci fondatori, era delimitato da un muraglione di cinta, pensato come protezione dagli animali selvatici e dall’intrusione di malintenzionati: in genere, per consentire il passaggio, si apriva nel muro un solo varco d’ingresso, sorvegliato da un guardiano. La chiesa costituiva l’elemento cardine dell’intero sistema monastico: povera di decorazioni, si presentava, almeno fino al Trecento, come un edificio ad aula rettangolare, privo di transetto, con l’area presbiteriale più stretta e rialzata rispetto all’unica navata e l’abside piatta. Poco illuminata, di solito per mezzo di finestre con forte strombatura verso l’interno, era coperta da un volta a botte.
Parti costitutive essenziali di una certosa erano il “chiostro piccolo”, in genere addossato a una delle pareti laterali della chiesa, riservato alla preghiera e alla meditazione dei monaci, su cui affacciavano gli spazi comuni, come il refettorio e la sala capitolare, e il “chiostro grande”, una galleria coperta, realizzata in legno e destinata a fungere da collegamento tra le celle dei monaci, ciascuna concepita come un’abitazione separata dalle altre.

La chiesa di Montebenedetto, grazie al suo perfetto stato di conservazione, è una testimonianza fedele dell’architettura certosina delle origini. Dei due chiostri, invece, rimangono scarse tracce: quello grande, con le celle dei monaci, venne gravemente danneggiato dalla piena del 1473 mentre gli unici elementi superstiti del chiostro piccolo sono il muro orientale e la relativa finestra. In uno degli edifici addossati alla chiesa e costruiti in epoca successiva per accogliervi le attività agricole e pastorali si può osservare un’elegante bifora di stile gotico, appartenente alla cosiddetta “casa del Priore”.
Il priore era, ed è tutt’ora, la guida della comunità monastica che, secondo le consuetudini dell’Ordine, rimaste quasi invariate dalla loro prima stesura ad oggi, viene eletto a scrutinio segreto ricorrendo a una procedura ancestrale, detta del “fagiolo segreto”, applicata anche ai giorni nostri. I monaci, adunati nella Sala del Capitolo, esprimono il proprio voto per i candidati alla guida della certosa, inserendo all’interno di un’urna un fagiolo bianco in caso di giudizio positivo e un fagiolo nero in caso di dissenso. La suprema autorità di governo dell’universo certosino, il Capitolo Generale, si riunisce invece ogni due anni presso la Grande Chartreuse, dove risiede il Priore Generale, chiamato “Reverendo Padre”, che, assistito da un Consiglio, governa l’Ordine fra un Capitolo e l’altro.

Interessante è anche lo stemma dell’Ordine Certosino, che non troviamo però raffigurato a Montebenedetto. Composto da un globo sormontato da una croce, appare sovrastato da una sequenza di sette stelle, aggiunte nel Seicento come richiamo ai sette monaci fondatori (San Bruno e i sei compagni). Il motto dell’Ordine “Stat Crux, dum volvitur orbis” (la Croce resta fissa, salda, mentre il mondo gira), coniato tra XVI e XVII secolo, sembra alludere al concetto di stabilità, immutabilità e eternità del divino, verso cui è interamente proiettata la vita del monaco certosino, contrapposte alla transitorietà e volubilità delle cose terrene.

Alla certosa faceva poi capo una rete più o meno estesa di “grange”, fabbricati ad uso residenziale e agricolo costruiti per la gestione del patrimonio fondiario del monastero, proveniente da donazioni o da acquisti di terreni situati anche a notevole distanza dai confini dell’eremo. Venivano condotte dai fratelli conversi e dai “donati” (monaci che non prendono i voti, ma “donano” la propria esistenza all’Ordine). Tra le grange di Montebenedetto la più importante era quella di Banda, collocata a una quota più bassa lungo il sentiero che conduce all’abitato di Villarfocchiardo.
Con il trasferimento dei monaci da Montebenedetto, autorizzato dal Capitolo Generale nel 1498, l’antica grangia di Banda, già in precedenza strutturata come una piccola certosa per consentire il soggiorno e le pratiche cultuali dei conversi, divenne la nuova sede della comunità. Anche la chiesa di Banda, nella sua semplicità, rispecchia i canoni architettonici delle certose medievali, ma risulta impreziosita, a differenza di Montebenedetto, da elementi ornamentali scultorei e pittorici (gli arredi sono stati in parte trasportati altrove).

Il lungo “itinerario” percorso dai monaci certosini lungo la valle di Susa non si concluse però a Banda perché, dopo un primo trasloco ad Avigliana a fine Cinquecento e un provvisorio ritorno sempre a Banda nel 1630, dopo il 1640 i Padri trovarono sistemazione nella Certosa Reale di Collegno, realizzata per volontà della prima Madama Reale.
La permanenza dei Certosini a Collegno, fatta salva la parentesi dovuta alla legislazione napoleonica che aveva soppresso nel 1801 le corporazioni religiose, si protrasse sino al 1850/1855 quando la convivenza forzata con gli internati del Regio Manicomio, unitamente ai provvedimenti anti-ecclesiastici del governo, impose ai Padri di lasciare il complesso barocco. Ai pochi rimasti venne offerta ospitalità dal conte Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, tra i principali oppositori della politica liberale di Cavour, che li accolse nel castello della Saffarona, acquistato nel 1833.

La gestione della Certosa di Montebenedetto, ridotta dopo il 1498 al ruolo di grangia, venne affidata dai monaci a un padre Procuratore, che ne curò l’amministrazione sino alla confisca dei beni avvenuta sotto il regime napoleonico. Attualmente l’ex complesso monastico attorno alla chiesa mantiene l’antica vocazione agricola, ospitando una famiglia di “marghé” rimasta fedele all’antica tradizione della transumanza e dedita alla produzione casearia.