Testo e foto di Paolo Barosso
Ai margini dell’abitato di Cavaglià, paese situato sulle prime ondulazioni orientali del sistema morenico della Serra d’Ivrea, nel punto di congiunzione con l’alta pianura biellese, si staglia la chiesa cimiteriale di Santa Maria di Babilone, nome curioso per un edificio di mirabile eleganza architettonica, la cui imponenza risulta accentuata dalla collocazione isolata del camposanto, immerso nella campagna.

In questo luogo alle porte di Cavaglià, località che fin dai tempi antichi si afferma come punto di passaggio del fascio di percorsi che da Vercelli conducono in valle d’Aosta e ai valichi alpini, risulta già esistente una chiesa, ovviamente molto diversa dall’attuale, nel XIII secolo (forse anche prima), mentre in un documento del 1440 la si trova menzionata come “Ecclesia Sanctae Mariae de Babilona”.
Il fabbricato, di cui non abbiamo molte notizie, andò incontro nei decenni successivi a una lenta rovina, certificata da una visita pastorale del primo Seicento, tanto che, proprio in quegli anni, si pensò di porre mano alla ricostruzione, esortati dal continuo flusso di devoti in cerca di conforto spirituale.

Il cantiere, avviato nel 1620 e terminato molto più tardi, nel 1680, fu reso possibile da un ingente donativo elargito alla comunità locale dal duca di Savoia Carlo Emanuele I, di cui si ricorda la grande devozione e munificenza.
L’aspetto esterno della chiesa, che denota i caratteri del primo barocco piemontese, richiama le realizzazioni di Ascanio Vitozzi (1539-1615), insigne architetto nativo di Orvieto in Umbria che, dopo aver militato in veste di capitano nell’epica battaglia di Lepanto (1571) a aver prestato servizio come ingegnere militare in Tunisia e Portogallo, si trasferì nel 1584 in Piemonte, lavorando per la corte sabauda e contribuendo, con i suoi numerosi progetti, elaborati in un periodo di transizione tra Manierismo e nuove correnti stilistiche, a influenzare il formarsi della grande tradizione del barocco piemontese.

Pur non esistendo prove certe e inequivocabili circa la paternità del disegno di Santa Maria di Babilone (anche perché, al momento dell’avvio del cantiere, il Vitozzi era già morto da qualche anno), gli studiosi ritengono molto probabile che l’edificio sacro sia stato realizzato attenendosi a modelli vitozziani, magari con la mediazione di uno dei suoi allievi.
La chiesa, a pianta ellittica e con pronao aggiunto nel Settecento come riparo dell’ingresso, appare sormontata da un’elegante cupola che culmina in un lanternino, innestata su un tamburo scandito da coppie di semicolonne che inquadrano ampie finestre. L’insieme della struttura architettonica, con la disposizione degli spazi, richiama analoghe soluzioni elaborate da Ascanio Vitozzi per il santuario mariano di Vicoforte nei pressi di Mondovì.
L’interno, spoglio e deteriorato nell’apparato ornamentale, ad eccezione degli affreschi seicenteschi sulla volta della cupola con figure di profeti, conserva però un altorilievo in stucco forte (tecnica non comune, evidenziata da Giovanni Romano), lavoro scultoreo di scuola franco-piemontese e d’impronta nordicizzante risalente alla prima metà del Duecento, che raffigura l’Adorazione dei Magi e che proviene dalla preesistente chiesa medievale, poi demolita, testimonianza di un culto localmente molto vivo per i Magi.

Interessante è anche il paesaggio circostante la chiesa, plasmato dal ritiro del Ghiacciaio Balteo e caratterizzato da leggeri saliscendi, con numerose emergenze rocciose interpretate (spesso erroneamente) come “menhir”, ma in realtà dovute all’isolamento della punta di un masso rimasto parzialmente sepolto dal materiale morenico (Giuseppe Pipino).
Da questo contesto nasce il dibattito attorno al cosiddetto “cromlech di Cavaglià”, costituito da undici grossi massi in micascisto posizionati in circolo (riallestiti in tempi recenti a cura della Soprintendenza) che alcuni leggono come una testimonianza della civiltà megalitica, mentre altri studiosi ne contestano l’autenticità (ritenendoli invece semplici massi erratici conficcati nel terreno morenico, le cosiddette “perefitte” di cui è disseminato l’Anfiteatro morenico eporediese e le zone limitrofe).
Riferimenti bibliografici e siti internet:
AA. VV., Il Piemonte paese per paese, Bonechi editore, Firenze, 2004.
www.cittaecattedrali.it