Tra i vitigni piemontesi più noti al grande pubblico, vi è senza dubbio il Barbera (o la Barbera, come dicevano i vecchi monferrini), varietà dominante nell’Astesana, ma diffusa un po’ in tutto il Piemonte e anche oltre i suoi confini (ad esempio Colli Piacentini, Bolognesi e di Parma, Oltrepò Pavese, ma anche California e Sud America, dove fu portata da viticoltori piemontesi; in Sardegna, invece, la locale Barbera pare piuttosto corrispondere al Carignan).

Il processo di specializzazione del vigneto piemontese si concluse nei primi decenni dell’Ottocento, quando si imposero le varietà dominanti, come la Barbera, che prevalse su vitigni “concorrenti” e finì per colonizzare, a partire dal secondo ventennio del XIX secolo, l’Astigiano, caratterizzando la geografia ampelografica del Piemonte sino ai giorni nostri.

Sull’etimologia del nome Barbera si discute ancora oggi: tra le varie ipotesi, vi è chi sostiene la derivazione del nome da vinum berberis, un succo fermentato di bacche selvatiche prodotte dalla pianta detta Crespino (Berberis Vulgaris), anticamente consumato a Nord delle Alpi, ma che godette di buona fama nel Piemonte tardo-medievale per le supposte proprietà terapeutiche. Altri collegano il nome del vitigno Barbera al latino medievale Barberus nel significato di irruente, aggressivo, indomito, con allusione al carattere forte, rude, del vino che si ricava da queste uve.

Le prime citazioni scritte della Barbera risalgono al Cinque-Seicento, in documenti relativi ad impianti del vitigno nel Chierese e in una carta conservata a Nizza Monferrato, ma sarà il conte Nuvolone, al tempo vicedirettore della Società Agraria di Torino, ad inserire nel suo studio ampelografico del 1798 il vitigno Barbera nell’elenco ufficiale delle varietà coltivate in Piemonte. L’origine autoctona piemontese della Barbera è avvalorata anche dalle testimonianze dell’abate Milano e del Gallesio che nei loro scritti (1839) la definirono vitis vinifera montisferratensis.

E’ probabile che in precedenza si parlasse e si scrivesse della Barbera usando altri nomi, forse Grisa o Grisola (cioè Uva Grigia), accomunando così il vitigno all’uva spina per la spiccata nota acida. Alcuni ritengono che il termine Grilla o Grixa ricorrente nelle fonti medievali, impiegato ad esempio ai primi del Trecento da Pier de’ Crescenzi nel Liber Ruralium Commodrum, indichi una sotto-varietà della Barbera attuale (e non il Nebbiolo, come erroneamente creduto dai traduttori seicenteschi dell’opera). Ancora Giovanni Battista Croce cita, nel suo scritto del 1606 sulla geografia ampelografica della Montagna di Torino (la collina torinese), la Grisa Maggiore, evidenziandone però la scarsa diffusione in zona e distinguendola con nettezza dal Nebbiolo.

Da segnalare l’esistenza in Piemonte di un’altra varietà autoctona, la Barbera Bianca (chiamata anche Bertolino, Peisìn, Caria l’aso), forse originaria dell’areale di Acqui e Alessandria (ma ne è attestata la presenza anche nell’Oltrepò Pavese), la cui coltivazione è oggi praticata da pochi contadini, tra Ovada e Acqui Terme, che ne conservano gelosamente alcuni filari. L’omonimia è dovuta alla somiglianza del grappolo (dalla forma allungata) e dell’acino di questa varietà a bacca bianca con quello della Barbera.

Dalle uve Barbera si ricavano la Docg Barbera d’Asti (90% Barbera in concorrenza per un massimo del 10% con altri vitigni a bacca nera non aromatici e idonei alla coltivazione nella Regione Piemonte) e le Doc Barbera del Monferrato (minimo 85% Barbera in concorrenza con Freisa, Grignolino e Dolcetto, da soli o congiuntamente, sino ad un massimo del 15%), Barbera d’Alba (minimo 85% Barbera in concorrenza con Nebbiolo sino ad un massimo del 15%) e Piemonte Barbera (minimo 85% Barbera in concorrenza per un massimo del 10% con altri vitigni a bacca nera non aromatici e idonei alla coltivazione nella Regione Piemonte).

10410628_712456348862503_1457597047232666589_n