di Arconte
«Siamo in Andezeno presso Chieri nel giorno 29 ottobre 1876. Il paese è in festa. Allegre brigate di contadini e di forestieri vanno in giro chiacchierando e ridendo rumorosamente coi segni della più sentita allegria. Donne e fanciulli si affollano qua e là ai banchi dei caldarrostai, dei fruttaioli e dei venditori di croccanti».
Inizia così il racconto di un caso di furto che il cronista giudiziario Basilius presenta nella “Rivista dei Tribunali” della “Gazzetta Piemontese” del 22 aprile 1877.
Basilius, con il senso di superiorità che al tempo tutti i torinesi manifestano nei confronti dei paesani, si diverte a descrivere con tono ironico e un po’ sprezzante la festa di Andezeno: le osterie piene zeppe di gente, i musicanti che suonano e steccano, le paesanotte che ballano allegramente con giovanotti adornati con un mazzetto di fiori finti sul cappello o all’occhiello della giacca, il banco di beneficenza in piazza dove patroni e patronesse si prodigano per vendere i biglietti a persone che ne farebbero volentieri a meno.
Al banco di beneficenza si trova il signor Aimerito, speziale del paese, con la moglie. Per finire piacevolmente la giornata, i signori Aimerito decidono di improvvisare una festicciola da ballo a casa loro, i classici «quattro salti in famiglia».
Gli inviti sono subito accettati. I signori Aimerito si precipitano a casa per far ordine nelle sale e predisporre quanto necessario: l’illuminazione, qualcosa da mangiare, «alcuni bottiglioni di buona freisa per i ballerini e specialmente per i suonatori, che, in generale, bevono come svizzeri».
A casa, il signor Aimerito ha una brutta sorpresa. Al primo piano trova spalancata una porta che lui aveva chiuso prima di uscire e vede aperto il cassetto di un comò dove tiene i soldi. Sono sparite centoventi lire in biglietti da dieci lire che poche ore prima lui ha messo in un libretto della Banca popolare poi nascosto in un angolo del cassetto sotto atti notarili e altri carteggi.
Lo speziale e sua moglie subito pensano alla loro servetta, Marietta Fenoglio, una giovane di sedici anni, fresca e rosea.
Le chiedono: «Chi è venuto qui durante la nostra assenza?».
«Nessuno, ch’io sappia».
«Sei tu che hai preso il denaro qui dentro?».
«Che un fulmine m’incenerisca se io ho toccato qualcosa».
Si mandano a chiamare i Carabinieri e il Sindaco, subito convinti, come i signori Aimerito, che sia stata lei a commettere il furto. Mettono alle strette la Fenoglio per farla parlare. Alla fine, la giovane, tutta confusa e vergognosa, dice di sapere che la ladra è una donna di Andezeno, Giovanna Gamba, che ha agito grazie alle sue indicazioni.
Lo speziale, il Sindaco, i Carabinieri si precipitano a casa della Gamba e la interrogano. La donna si dichiara innocente e, alla perquisizione, non si trova il denaro. Tornano dai signori Aimerito e la Fenoglio, informata della ricerca infruttuosa dalla Gamba, insiste a dire che il denaro è da questa donna e che, se fosse andata lei a cercarlo, avrebbe saputo trovarlo. Gli inquirenti tornano nella abitazione della Gamba con la Fenoglio ma neppure questa volta il denaro salta fuori.
Alla fine, stanchi di cercare, tutti se ne tornano a casa.
A questo punto entra in scena la signora Aimerito. Prende da parte la Fenoglio, la tranquillizza con buone parole, la invita a confessare la verità, la esorta a restituire il denaro rubato con la promessa di perdonarla. Allora la Fenoglio, a piedi scalzi, parte da casa Aimerito e va sotto le finestre della Gamba, che sono chiuse, e la chiama: «Giovanna, venite ad aprirmi!».
«Chi siete? Che volete?».
«Sono la Fenoglio e vengo a restituirvi quei venti soldi che mi avete dato l’altro giorno da portare a vostra cognata».
«Ah sì? A quest’ora venite? – è quasi mezzanotte! – E osate presentarvi dopo la bella figura che mi faceste fare?» risponde arrabbiata la Gamba che poi minaccia di tirarle il pitale in testa.
La Fenoglio, «che non ama la maiolica sul capo», a questo punto ritorna dalla signora Aimerito e le consegna centodieci lire.
«Dove le hai prese?», le chiede la signora.
«Dalla Gamba che è venuta ad aprirmi la porta di sua casa e me le ha consegnate dopo averle prese in una scarpa, dov’erano nascoste».
Si fa il processo, la Fenoglio insiste ad accusare la Gamba e così tutte due sono processate con l’accusa di furto dal Tribunale correzionale.
La Fenoglio al dibattimento ripete quanto ha già riferito ai Carabinieri di Andezeno e quanto ha raccontato alla signora Aimerito sulla provenienza delle centodieci lire che ha restituito.
Accortamente interrogata dal cavalier Fiorito, Presidente del Tribunale, la Fenoglio è finalmente costretta a confessare che è stata lei a commettere il furto e non la Gamba. Tuttavia non c’è verso di farle confessare che la Gamba non ha ricevuto da lei il denaro rubato: continua a dire di aver agito per istigazione della Gamba e di averle poi consegnato il malloppo.
Questa affermazione della Fenoglio è però smentita nel modo più assoluto dai testimoni dell’accusa: questi giurano che quando la Fenoglio si è presentata a mezzanotte a casa della Gamba, questa non ha aperto né la porta né le finestre ed è così impossibile che le abbia consegnato il denaro.
Giovanna Gamba è assolta e la Fenoglio, malgrado la «infiammata difesa del causidico Fiandini», è condannata a sei mesi di carcere.
Il nostro cronista Basilius non dimostra alcuna simpatia per l’accusata Marietta Fenoglio: a conclusione, commenta che i sei mesi di carcere sono «Pochini davvero». Fin dal sommario della sua “Rivista dei Tribunali”, ha parlato di una «serva infedele» e di «astuzie di una ladra precoce»: questo atteggiamento un po’ insolito per un cronista giudiziario appare giustificato dal comportamento della giovane Marietta – definita «volpe finissima» e «sfacciata» – che, anche al processo, persiste a calunniare un’altra donna.