di Arconte

Nell’anno 1874 non è certo frequente che fatti di cronaca nera possano occupare la prima pagina della “Gazzetta Piemontese” e degli altri quotidiani, torinesi e italiani. Fa eccezione la notizia di un feroce uxoricidio, commesso nella sera del 12 gennaio sulla strada che da Gassino porta a San Sebastiano, nel territorio di Casalborgone. La “Gazzetta Piemontese” di sabato 17 gennaio 1874 riporta questa notizia per prima, in prima colonna, nella prima riga: «Casalborgone, 14. – Un atroce misfatto compievasi la sera del 12 corrente in questo territorio».

 

Lunedì 19 gennaio 1874, sempre in prima pagina, questa volta in terza colonna, lo stesso giornale riporta da Casalborgone un «un particolareggiato rapporto del grave delitto colà avvenuto».

Non seguiremo queste prime notizie che enfatizzano la crudeltà del marito omicida, il suo tentativo di depistare le indagini e la sagacia degli investigatori che lo hanno indotto a confessare già il giorno seguente. Dopo averne sottolineato l’insolita presenza in prima pagina, ci affidiamo alla cronaca giudiziaria di Curzio, pubblicata insolitamente in ben due puntate, il 21 e il 28 novembre 1874, nella Rivista dei Tribunali dell’Appendice della “Gazzetta Piemontese”.

Protagonisti della storia sono Rocco Fassino, contadino di 35 anni, nato a Casalborgone e residente nel territorio di San Sebastiano da Po e la moglie Anna Chiappino, di 29 anni.

Scrive Curzio: «Era il Rocco Fassino […] di gusto depravato: non amava né portava benevolenza alla propria moglie Annetta Chiappino, tuttoché questa fosse ancora giovane e bella, snella della persona ed avesse maniere dolci e gentili, accompagnate da altre varie qualità amatorie: prediligeva per contro e preferiva la fantesca Michelina, che per essere brutta, schifosa e di una grossezza sproporzionata alla sua altezza di poco più di un metro, sembrava un fagotto di stracci.

Conoscendo la infelice Annetta l’animo crudele dell’infame marito, sopportava pazientemente ogni insulto ed ogni ingiuria; e se talvolta le sfuggiva qualche osservazione, veniva maltrattata e caricata di percosse. Doveva assistere al suo disonore e tacere. Tanto la serva quanto la moglie stavano per diventare madri ad opera del solo Fassino e l’una e l’altra lo divennero nello stesso mese. Il figlio legittimo nacque in casa, e l’illegittimo presso una levatrice in Torino. Il primo morì, e morì, a quanto ora dicesi, di morte violenta, e l’adultero marito spingendo la sua indelicatezza oltre ogni limite, pretendeva che la moglie allattasse il bambino della serva. Ciò, come è naturale, ripugnava alla povera Annetta e l’esecrato Fassino contro di lei inveiva e schiaffi e pugni e calci le menava.

Malgrado la ripugnanza della moglie, il barbaro uomo si era fitto in capo che questa dovesse ad ogni costo avere cura ed allevare il neonato della serva. Perciò, fatto portare il bambino alla casa dei disgraziati trovatelli, con un fare meno rude del solito disse all’Annetta:

– Hai latte abbastanza, non vuoi darlo a quel bambino: per guadagnare qualche cosa conviene che prendiamo un trovatello.

– Meno male un trovatello; ma giammai il figlio di colei che tante amarezze mi cagionò, e tanti tristi giorni mi fece passare.

Con questo accordo i due coniugi partono da Casalborgone per recarsi a Torino, e qui giunti non avendo potuto, non sappiamo per quale ragione, avere alcuno dei miseri infanti, ripresero la strada verso la loro casa.

Prima di ripartire però il Fassino fece acquisto di una pistola dall’armaiolo che tiene negozio in piazza San Giovanni, e comperò pure polvere e pallini di piombo. Poi nel viaggio faceva passare la moglie per viottoli e vie deserte, e appena la condusse in luogo recondito, estrasse la pistola già caricata, la puntò e la sparò alla nuca della infelice donna.

 

Questa non restò morta sul colpo, ed egli, ricaricata in fretta l’arma micidiale, altro sparo eseguì, che la condusse in fin di vita. Dopo questo tragico ed orribile fatto corse difilato dai Carabinieri, e con finta commozione loro raccontando esser egli e la moglie stati da grassatori assaliti, li invitava a recarsi prontamente sul luogo dove la consorte era caduta ferita.

Per quanta apparenza di verità Fassino cercasse d’imprimere allo sfacciato e bugiardo racconto con una minuta descrizione dei grassatori, della loro audacia e crudeltà, i Carabinieri ben sapendo che egli aveva già in qualche circostanza manifestata la intenzione di disfarsi della moglie per poi scapricciarsi con maggior suo bell’agio colla propria druda [amante], non prestarono cieca fede ai suoi detti.

Onde, tenendo d’occhio Fassino, si fecero da lui condurre sul luogo del delitto. Il brigadiere però precede la comitiva di alcuni passi e, visto il cadavere, si rivolse subito indietro dicendo:

– Vostra moglie non è ancor morta, ha ancora pronunciato una parola, colla quale disse essere voi l’assassino.

– Oh povero me, son perduto!

– Dunque non vi resta altro che confessare la vostra colpa per indurre poi la giustizia ad usarvi clemenza.

Noi non facciamo plauso alla poco caritatevole astuzia usata dal brigadiere; dobbiamo però riconoscere che egli agevolò di molto la istruzione del processo. Per la qual cosa Fassino fu arrestato e condotto [il 20 novembre 1874] davanti la Corte d’Assiste di Torino, presieduta dall’ottimo cav. Fava.

Il cavalier Boron, rappresentante il Pubblico Ministero, sostenne acremente l’accusa, cercò di escludere ogni circostanza attenuante in favore dell’accusato, e disse che i giurati non dovevano e non potevano invadere i diritti e le prerogative del Re nel salvare dal patibolo l’infame uxoricida.

Di fronte alla confessione dell’accusato, di fronte al fatto da lui cosi barbaramente commesso, l’avvocato Peretti durò molta fatica per poter strappare il suo cliente dal patibolo, e lo strappò persuadendo i giurati ad ammettere le circostanze attenuanti. Per conseguenza la Corte condannò Fassino alla pena dei lavori forzati a vita».

Si conclude così la cronaca giudiziaria di Curzio che abbiamo riportato parzialmente, nel suo testo originale, per permettere di cogliere pienamente l’approccio di un uomo della legge (Curzio è in realtà l’avvocato Matteo Bertone, vice-pretore urbano), poco meno di 150 anni or sono, nei confronti di un caso di quello che oggi chiamiamo “femminicidio”.