di Paolo Barosso
Nel 1875 veniva inaugurato nella parrocchiale di Ghemme (No) lo Scurolo, spazio interno alla chiesa progettato dall’architetto Alessandro Antonelli (nato proprio di Ghemme) allo scopo di accogliervi le spoglie mortali della Beata Panacea, vergine e martire, promossa ufficialmente nel settembre 2023 al ruolo di patrona della Valsesia.

Ricorrono nel 2025, dunque, i 150 anni dalla costruzione dello Scurolo antonelliano e, per celebrare degnamente l’occasione, sono state organizzate nel comune di Ghemme una serie di iniziative religiose e culturali che hanno avuto inizio il 29 agosto, ma che proseguiranno nel fine settimana del 6 e 7 settembre con un convegno dedicato al tema, previsto nella giornata di sabato, e con la solenne processione per le vie del paese, in programma la domenica, seguita dalla Santa Messa presieduta dal vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla.
Lo Scurolo disegnato da Alessandro Antonelli è uno dei capolavori del vulcanico architetto piemontese, la cui fama imperitura è legata alla progettazione della Mole Antonelliana di Torino e della Cupola di Novara, ma che lasciò sul territorio numerose altre testimonianze della sua genialità, ammirata a livello internazionale. Lo spazio sacro, pensato per accogliere il corpo di Panacea, venne concepito come una cappella-reliquiario a pianta circolare, che si apre sul lato sinistro della parrocchiale di Ghemme, all’altezza del transetto, collegata ad esso tramite un arco serliano e scandita internamente da otto colonne che sorreggono la cupola ad esagoni schiacciati e triangoli. All’interno si trova l’altare, sollevato da terra “come una scena teatrale” (F. Rosso), raggiungibile tramite una doppia scalinata e sormontato da una doppia urna con il corpo della Beata Panacea.
Lo Scurolo antonelliano di Ghemme si configura, quindi, come il fulcro devozionale della Beata Panacea, oggetto di un culto radicato da secoli non solo nel territorio di Ghemme, ma in tutta la Valsesia, come attestano le numerose testimonianze pittoriche sparse in chiese e oratori della valle che mostrano Panacea con i suoi tradizionali attributi iconografici.
Nata a Quarona nel 1368 in una famiglia di modeste condizioni, la giovane Panacea de’ Muzzi, che portava un nome inusuale, di origine greca, indicante “colei che rimedia a tutti i mali”, morì nella primavera del 1383, a soli quindici anni, per mano della matrigna. La donna, di nome Margherita, convolata a nozze con il padre di Panacea, rimasto vedovo della prima moglie, che era oriunda di Ghemme, detestava la bambina, mossa da un misto di odio e di invidia. Ciò che Margherita non sopportava, stando alle cronache, era la grande devozione religiosa che animava la giovane valsesiana, ma anche i suoi frequenti slanci di generosità e compassione verso i poveri e i malati.
Sottoposta nell’ambiente domestico a continue angherie e vessazioni, nonostante i tentativi di opposizione del padre, la piccola Panacea andò incontro a un crudele destino. Secondo la tradizione, raccolta in numerosi scritti biografici, la ragazzina nella primavera dell’anno 1383, come d’abitudine, s’era recata al pascolo sulla montagna sopra Quarona ma, essendosi attardata per recitare le orazioni, provocò la collera della matrigna che, colta da ira irrefrenabile, la raggiunse nella radura e iniziò a picchiarla violentemente, colpendola poi a morte una conocchia (o rocca), strumento adoperato nella filatura delle fibre tessili, e forse anche un fuso (in base a quanto riportato da don Bernardino Lancia). Resasi conto della conseguenze della propria condotta, che andava probabilmente aldilà delle sue reali intenzioni, la matrigna si suicidò gettandosi da una rupe vicina.

Gli episodi salienti della vita di Panacea si trovano simbolicamente riassunti negli attributi iconografici che ne caratterizzano le rappresentazioni pittoriche e scultoree: la conocchia, che è l’oggetto contundente adoperato per percuotere a morte la ragazza, disprezzata dalla matrigna per il suo fervore religioso; il gregge di pecore, che richiama l’occupazione abituale di Panacea e la sua dimensione di vita semplice, in un ambiente rurale modesto; una piccola fascina di legna ardente, che si collega a un altro avvenimento inspiegabile tramandato dalle fonti orali e scritte.
Secondo la tradizione, infatti, una fascina di legna posata vicino al corpo esanime di Panacea si mise ad ardere spontaneamente, lasciando immaginare un intervento divino, così come il risuonare improvviso delle campane della vicina chiesa di San Giovanni. I due eventi prodigiosi richiamarono l’attenzione della gente di Quarona, che accorse sul luogo rinvenendo il cadavere e trasportandolo poi in paese
La giovane Panacea venne sepolta accanto alla madre, nel cimitero di Ghemme, ma in seguito fu traslata all’interno della parrocchiale, dove ancora oggi riposano le sue spoglie mortali, che nel corso dell’Ottocento vennero sistemate secondo l’uso invalso a quel tempo nel modellare le ossa dei corpi santi provenienti dalle catacombe romane.
La fama di santità della giovane valsesiana si irradiò in poco tempo dal luogo del martirio, Quarona, e da quello di sepoltura, Ghemme, espandendosi in tutto il territorio valsesiano e in gran parte del Novarese, radicandosi a tal punto nell’orizzonte devozionale delle popolazioni locali che, con il tempo, si affermò la consuetudine di riferirsi alla Beata Panacea con il semplice appellativo di “La Beata” (il culto riceverà conferma ufficiale solo nel 1867)