Testo e foto di Paolo Barosso

Ambiente “fortemente alpino”, affascinante per l’aspetto rude e impervio, e per la “vigoria montanara” che vi traspare (R. Mortarotti), la valle Antrona è forse la meno conosciuta tra le valli ossolane, ma meritevole d’essere scoperta dal visitatore, soprattutto percorrendola a piedi e vivendola nella selvaggia bellezza dei suoi boschi e nell’atmosfera antica dei suoi borghi.

Viganella: veduta di Casa Vanni, edificio risalente al XV secolo.

Da tempi remoti la valle del torrente Ovesca (questo il nome del corso d’acqua che vi scorre) è attraversata da una via di collegamento che rivestì una certa importanza in particolare nel Medioevo, nota come “Strada Antronesca”, che metteva in comunicazione l’abitato di Villadossola, grosso centro situato all’imboccatura della valle, con la valle di Saas e il comune di Visp, nel Vallese svizzero.

L’itinerario, frequentato da mercanti, montanari, viaggiatori, s’inerpicava con ripidi tornanti tra aspre giogaie e vertiginosi strapiombi rocciosi, raggiungendo il culmine nel passo di Saas, a 2884 metri d’altitudine, il più elevato valico storico dell’Ossola, di poco superiore al vicino passo del monte Moro (2868 metri) che consentiva di raggiungere la valle di Saas dalla colonia Walser di Macugnaga in alta valle Anzasca.  

Scorcio del lago di Antrona nell’alta valle.

Pur non avendo mai acquisito la rilevanza della strada del Sempione, protetta da accordi internazionali, la Strada Antronesca ebbe comunque una certa importanza nella promozione dei collegamenti tra Vallese e alto Piemonte e nella gestione dei traffici commerciali tra i due versanti, come attesta il documento redatto a metà Quattrocento nel villaggio di Saas Grund che certificava gli impegni solennemente presi dai rappresentanti delle comunità valligiane per la manutenzione del percorso, di cui si doveva garantire l’agibilità sia per gli uomini che per le some.

Dal Vallese, attraverso la strada della valle Antrona, s’importavano capi di bestiame e il famoso “panno valesio” mentre dall’Ossola prendevano la strada dei mercati svizzeri i vini prodotti sui terrazzamenti della bassa valle (smerciati nell’Oberland bernese e nell’alto Vallese), alcune produzioni dell’artigianato locale, il sale, essenziale per la conservazione dei cibi e la produzione casearia (salatura dei formaggi), e il ferro estratto dalle miniere della zona.

Ancora oggi, in alcuni tratti del tragitto, che può essere percorso a piedi, è riconoscibile l’antica lastricatura della Strada Antronesca, che prendeva le mosse dal fondovalle ossolano, dipartendosi dalla cosiddetta Via Francisca, itinerario privilegiato dai mercanti padani in viaggio verso le regioni della Svizzera centrale.

La strada, insinuandosi tra i fianchi scoscesi della valle, tra balze rocciose e fitte foreste, ne toccava i principali centri abitati, partendo, come abbiamo scritto, dal paese di Villadossola, che a partire dal primo Ottocento legò le proprie sorti alla vocazione manifatturiera e industriale (polo siderurgico).

Vicolo di Viganella. Nello stemma del comune, oggi aggregato a Borgomezzavalle, compaiono la vite e un maglio idraulico, a voler indicare le due attività storiche degli abitanti del borgo, impegnati un tempo nell’estrazione e lavorazione del ferro e nella coltivazione dell’uva.


Il primo comune in cui ci si imbatte addentrandosi nella valle è Montescheno, distribuito in quattordici borgate, che conservano ancora i torchi consortili per la spremitura dell’uva, un tempo estesamente coltivata sui terrazzamenti dei versanti montani, e alcuni forni frazionali per la cottura del pane di segale, il cereale storicamente più coltivato in Ossola.

Proseguendo il tragitto, s’incontra Borgomezzavalle, comune costituitosi nel 2016 dalla fusione dei due comuni preesistenti di Seppiana, l’antica Selvaplana, che fu punto di riferimento religioso della valle Antrona fin dal XIII secolo, quando, con il distacco da Oxila (Domodossola), vi si fondò la prima pieve (Sant’Ambrogio), e Viganella, borgo che nei tempi passati fondò la sua prosperità alla viticoltura e alla lavorazione del  ferro estratto dalle miniere di Ogaggia.

Costruzioni in pietra con copertura in piode tipiche della valle Antrona.

Il comune di Antrona Scheranco accorpa invece, dal 1928, diversi aggregati, tra cui principalmente Schieranco, antico centro minerario, come Rovesca e Locasca, e Antronapiana, nell’alta valle, che basava la propria economia sullo sfruttamento di pascoli e alpeggi e sulla produzione di latte, burro, formaggi.

I villaggi rurali della valle Antrona sono costruiti quasi interamente in pietra, con abitazioni realizzate ricorrendo alla tecnica del muro “a secco” (pietre impilate senza leganti) e coperte dai tradizionali tetti di “piode”, che sono lastre di serizzo o beola (gneiss).

Dal punto di vista economico, nelle frazioni situate in alto, ma non oltre gli 800 metri, si riscontrano i tratti caratteristici della “civiltà rurale montana”, con prevalenza delle pratiche agricole sull’allevamento, che invece era predominante, con tendenza a divenire quasi esclusivo, negli stanziamenti umani collocati alle quote più elevate.

Insediamento d’alta quota nei pressi del lago di Antrona.

Gli abitati disposti lungo i fianchi delle montagne avevano il vantaggio, rispetto ai centri del fondovalle, di godere di una migliore esposizione solare, con una durata inferiore dell’innevamento e evidenti benefici per l’agricoltura, e di essere posti al riparo dalle inondazioni periodiche dell’impetuoso torrente Ovesca, ma, in compenso, i membri di queste comunità dovevano ingegnarsi di più per strappare alla natura e al bosco il terreno necessario per le coltivazioni.

Presero così forma, nei secoli, i terrazzamenti (söstin nella parlata ossolana) che, sostenuti da muretti a secco, consentivano di ricavare campicelli coltivabili, preparati trasportando a spalle dal fondovalle terra più fertile. Da questi spazi per la pratica agricola, faticosamente modellati dall’azione antropica, si traevano prodotti in quantità modeste, cereali, vino e canapa, utili però per il consumo domestico e per lo scambio commerciale con beni non disponibili in loco.

Religiosità popolare ossolana: affresco a carattere sacro sulla parete d’una casa di Viganella.

Finalizzati alla produzione vinicola erano gli enormi torchi, cui si è fatto cenno in precedenza, di uso comunitario, in alcuni casi conservati e visibili, che rispondono al modello del “torchio piemontese a leva”, composto da una grande trave in legno (arbul) di castagno o di rovere e da una grossa pietra collegata alla trave per mezzo di una vite realizzata in legno di noce, pero o frassino. Il torchio veniva impiegato per la spremitura delle uve, ma anche delle noci, per estrarvi l’olio, e di un particolare tipo di pere a maturazione invernale usate per produrre una bevanda alcolica dolce.  

La viticoltura, sebbene in misura limitata rispetto al passato, è ancora praticata sui terreni attorno a Viganella, con il metodo di allevamento a pergola (topia), e vanta, oltre a Barbera, Croatina e Merlot, alcune varietà autoctone, attualmente in fase di studio, come la Rachina, a bacca rosata, e il Negrun (Negrone), a bacca nera.

I terrazzamenti megalitici, ritrovati nel sito archeologico di Varchignoli e altrove (Villadossola, Viganella), attestano l’antichità della coltivazione della vite in valle Antrona e nell’Ossola, e consentono di ipotizzare una primitiva produzione vinicola nella società lepontica, finalizzata al consumo rituale per le elités dominanti.

La valle Antrona è anche ricordata come la valle del ferro, metallo che abbonda nei giacimenti della zona, sfruttati fin dal principio del XIII secolo come risulta da un documento del 1217 riferito alla località Valmagliasca, a Viganella. Scavi archeologici condotti nei pressi di Gravellona Toce negli anni Cinquanta del Novecento avevano rinvenuto tracce di un forno fusorio del ferro, testimonianza di un’attività metallurgica praticata già dagli antichi Leponzi (o Leponti), popolazione pre-romana stanziata nell’Ossola.  

L’estrazione e la lavorazione del ferro, attestata dalla frequenza di toponimi legati a queste pratiche (Furno o Forno, dai forni per la fusione del ferro, Frera, da ferriera, Val Magliasca, dai magli idraulici operativi lungo il torrente) proseguirono dal Medioevo fino al primo Settecento, quando entrarono in crisi, sopraffatte dalla più redditizia attività estrattiva dell’oro, molto presente in valle (uno scritto del 1824 conteggia oltre cento mulini per l’amalgamazione, processo tradizionale per l’estrazione dell’oro con il mercurio), ma conobbero una stagione di rinascita tra la fine del XVIII secolo e l’inizio dell’Ottocento, grazie all’intraprendenza di Pietro Maria Ceretti (1735-1801), fabbro ferraio di Verbania.

Sponde rocciose del lago di Antrona.

Il Ceretti, intuendo le potenzialità legate alle nuove tecniche di lavorazione e fusione ed essendo a conoscenza della qualità dei giacimenti ferriferi della valle Antrona, in particolare quello di Ogaggia, avviò una fonderia a Viganella, che si espanse poi nel 1804 con l’attivazione di un forno per la ghisa (lega ferro-carbonio) a Villadossola, favorita dalla vicinanza alla strada del Sempione e da un attracco sul fiume Toce, nucleo primigenio della fiorente industria siderurgica (produzione di ferro puro e delle sue leghe, ghisa e acciaio), destinata ad affermarsi in questo centro del fondovalle.  

Il lago di Antrona in una cartolina del 1926.

Tradizionale di un’area ristretta, compresa tra la valle Antrona e la valle Vigezzo, è anche l’estrazione della “laugera”, termine ossolano usato per designare la “pietra ollare”, roccia rara sulle Alpi, di colore verde scuro, già menzionata negli scritti di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) come materiale ideale, per la sua resistenza al fuoco (“vehementer igni resistens”) per la fabbricazione di recipienti utili a cuocere cibi o contenere alimenti (il termine “olla” indica proprio un recipiente, di solito un vaso panciuto, con coperchio).

Scorcio di Viganella dal loggiato della quattrocentesca Casa Vanni.

In valle Antrona la coltivazione delle cave di “laugera”, adoperata oltre che per i “laveggi” (pentole) anche per la realizzazione di elementi architettonici decorati e scolpiti (come i capitelli di piazza Mercato a Domodossola), risulta fiorente fin dal XIV secolo, quando i giacimenti erano di proprietà del vescovo di Novara, che ne concedeva lo sfruttamento a imprenditori locali dietro corresponsione di una “decima”.

Domodossola: i corsi chiari e scuri del portale d’ingresso della ex chiesa conventuale di San Francesco, oggi Palazzo San Francesco, sede museale. Nel paramento murario si alterna il verde scuro della pietra ollare al candido marmo di Crevoladossola.

Concludiamo questo breve itinerario sulle orme dei viaggiatori della Strada Antronesca con una sosta sulle sponde del suggestivo lago di Antrona, bacino lacustre situato a 1240 metri d’altitudine, la cui origine, in tempi non troppo lontani, s’intreccia con gli echi di un cataclisma naturale che fu causa di una tragedia umana.

Era la notte del 27 luglio 1642 quando, d’improvviso, un’enorme frana si staccò dal monte Pozzuoli, compiendo un salto di mille metri e rovinando a velocità impressionante sulle case delle sottostanti borgate di Antrona.

Veduta del lago di Antrona con il camminamento che ne costeggia il perimetro e la cascata Sajont.

L’evento, probabilmente favorito dalle intense precipitazioni dei giorni precedenti, che facilitarono lo scivolamento degli strati di gneiss, provocò la morte di un numero non precisamente definibile di persone, ma che la maggior parte delle fonti indica in 95.

Il gigantesco smottamento, che cancellò gran parte delle abitazioni, ostruì il corso del torrente Troncone, creando uno sbarramento di detriti e pietrame che, trattenendo le acque, fu all’origine della formazione del lago di Antrona.

Note bibliografiche

Crosa Lenz P. e Pirocchi P., Verso il Parco dell’Alta Valle Antrona, Itinerario didattico tra Storia e Natura, Regione Piemonte, 2013

Giambattista Fantonetti, Le Miniere metalliche dell’Ossola in Piemonte, 1838, Milano

Augusto Sella, Giacimenti auriferi delle Alpi italiane, 1943