di Giorgio Enrico Cavallo

E i canto j’arme, e ‘l general famos
Che, vist Tròja brusà, zichin-zichet
A l’é montà sle nav pì prest ch’an pressa
E a l’é aprodà an Italia, ant col canton
Dov a l’ha tirà su na sitadin-a
E a l’ha butaje ‘n nom ëd tòta Lavinia.

Sì, Virgilio parla anche piemontese. Almeno, lo fa nella traduzione dell’Eneide eseguita da Giuseppe Alasia e data alle stampe a Torino tra il 1886 e il 1887. Sorpresi? E perché mai? Non si può forse tradurre in piemontese un poema epico? Certo che si può. Ne diede prova, tra gli altri, proprio Giuseppe Alasia che, ormai prossimo alla morte, provò a tradurre in piemontese il capolavoro di Virgilio, ben sapendo però i propri limiti letterari. Alasia era un funzionario della cosa pubblica, divenuto consigliere di Stato e per il quale la traduzione del poema latino rappresentava uno svago nei giorni della vecchiaia. Lo scrisse lui stesso:

Un pòver vej, un farfo pataloch,
dòp d’essi giubilà, a l’ha avù n’ideja:
n’ideja stramba, s’as veul, ma còsa feje?
Sto vej balòta, për ocupè sò temp…
An-namorà d’ampess dij vers ëd Virgilio
A l’ha pensà ëd traduvje an piemontèis.

Cerea
Ritratto di Giuseppe Alasia, opera di Aristide Calani (Il Parlamento del Regno d’Italia, 1861) – fonte: Wikipedia

È un’epica un po’ di paese, ma resta sempre l’epica di Virgilio. Le parole non sono quelle latine, è vero, ma la sostanza è quella del grande poeta classico. E allora possiamo accettare anche i versi un po’ rozzi – Alasia era animato da buona volontà, ma non era Dante; e nel citare la sua opera si è qui scelto di usare la grafia piemontese odierna, ormai standardizzata – che ci raccontano le gesta di Enea. Un esempio, tra i celebri:

Enea a vnirà an Italia e a farà guèra.
A sbërgnacrà dij pòpoi mes sarvaj…
E, dòp d’avej-je tuti mes assogetà,
a dominrà sensa ch’a banfo pì.
L’imperi dij Roman l’avrà nen ëd lìmit
nì ëd temp, nì ëd teritòri: a s’ëstendrà
Sensa mësura, e sensa mai fërmesse…

Oppure, l’incipit del canto II:

Fàit da tuti silensi, as na stasìo
con ij sguard fiss e con j’orije drite
sensa gnanca ancalesse a respiré:
anlora Enea, për compiasì Didon,
dàit un sospir, e peui aussandse drit;
“Regin-a, a dis, ti it veuli ch’i rineuva
un dolor dësperà ch’am stà sël cheur!
‘T veuli la dolorosa relassion
dla ruin-a ‘d mia patria e dij mè amis,
dla potensa Trojan-a, e dij sò Rè”.

L’Eneide in piemontese di Alasia non riesce, certamente, a dare la giusta enfasi: i suoi versi sono un po’ raffazzonati, ma sono un banco di prova per future traduzioni in lingua subalpina. Michele Vaudano, che si occupò in più occasioni dell’Eneide dell’Alasia, la sferzò con toni di saccente ironia, concludendo sbrigativamente che «il dialetto male si addice all’epica».

Ma è vero? Ovviamente, no. Innanzi tutto, perché il piemontese non è derubricabile al ruolo di dialetto dell’italiano, con cui non spartisce niente, ma è una lingua a se stante, come – per restare entro i confini italiani – il sardo, il siciliano, il veneto. E chiaramente ogni lingua che si rispetti ha in sé, nel suo vocabolario, tutti gli strumenti per rendere efficace una traduzione di qualsivoglia specie. Anche l’epica.

È però comprensibile lo spaesamento di fronte ad un’opera classica tradotta in piemontese: ci si domanda se è necessario veramente spendere tempo e carta per tradurla e pubblicarla. Diremo di sì: confinare le lingue «minori» al ruolo di macchiette, utili per ridere del modo di parlare delle zone di campagna, non ci fa onore. Ogni lingua ha la sua dignità e il suo incredibile bagaglio culturale, che va a perdersi se non lo si sfrutta.

Perdere una lingua vuol dire cancellare usi, costumi, idee, sentimenti, modi di dire che hanno caratterizzato un popolo (in questo caso quello piemontese): alla lunga, la perdita di una lingua produce l’effetto straniante che oggi hanno i ragazzi che traducono Cicerone, Cesare o – per l’appunto! – Virgilio dal latino: le parole suonano aride, non evocano più nulla, e per la stragrande maggioranza dei giovani traduttori il mondo latino, l’intimità del suo pensare e del suo modo di essere resteranno confinati in un’aura di inaccessibile incomprensione. Vogliamo che sia lo stesso anche per la cultura piemontese?