Di: Giorgio Enrico Cavallo
A volte, i progetti che possono sembrare frutto della fantasia o dei sogni di qualche visionario si possono mutare in realtà. Poniamo l’esempio di voler spostare una torre a mani nude. Impossibile, vero? Eppure, nel 1776, un uomo riuscì nell’impresa. Chiaramente, non da solo. E ovviamente, senza godere della fiducia di nessuno. Stiamo parlando di Giuseppe Crescentino Serra, singolare “mastro da muro” vercellese, il cui nome ottenne una certa fama nel Piemonte dei suoi anni proprio per il suo progetto a tratti stravagante, ma certamente avveniristico (e riuscito): quello di “traslocare” un campanile alto 22 metri dalla sua sede originaria.
In breve: il rettore del santuario della Madonna del Palazzo di Crescentino aveva deciso di ingrandire il luogo sacro, per il grande afflusso di fedeli. Siamo nel Settecento, e gli sventramenti di opere d’arte antiche avvenivano senza problemi, salvo però ricostruire edifici più pregevoli di prima (non i nostri eleganti palazzi in cemento armato). Ma, di fronte alla necessità di abbattere il campanile del santuario, si levò la voce solitaria di Crescentino Serra: «Perché distruggerlo – domandò al priore – basta spostarlo un po’ più in là». I religiosi erano dubbiosi: Serra era un muratore, non un architetto, non un ingegnere. Non aveva uno straccio di laurea, e non poteva considerarsi dunque uno “che aveva studiato”. Ma i religiosi, visto e considerato che tanto, nella peggiore delle ipotesi, il campanile sarebbe stato comunque demolito, accettarono il suo progetto.
Ebbene, come avvenne l’operazione? Semplicemente, il Serra imbragò il campanile, lo fece slittare su alcune travi di legno, e lo riposizionò «un po’ più un là». Ovviamente, servendosi dell’aiuto dei paesani, che diedero i muscoli necessari per l’operazione. Semplice come bere un bicchier d’acqua. Oltretutto, per dimostrare che la torre non sarebbe caduta, mandò suo figlio nella cella campanaria, facendogli suonare le campane per tutta la durata dell’operazione. Era sul trono del Piemonte, in quegli anni, Vittorio Amedeo III, che venne informato del “prodigio” compiuto dal Serra, e che gli accordò una piccola pensione e lo chiamò per dirigere i lavori di fortificazione di Tortona.
Se un insegnamento possiamo trarre da questa storia, è forse che il progresso non sempre deve per forza demolire il vecchio, per potersi affermare. Meditino coloro che passano con le ruspe su qualunque cosa, perché sarebbe “troppo costoso” preservare il passato. Ma soprattutto, meditino coloro che si arroccano dietro diplomi e lauree: monsù Serra non ne aveva nemmeno una. Le nostre “archistar” potrebbero emularlo?