Testo e foto di Paolo Barosso

Il paese di Montemagno, adagiato sulle morbide colline a nord di Asti, si caratterizza per l’imponente castello dei Calvi di Bergolo che domina l’abitato e caratterizza fortemente, con il suo coronamento merlato di tipo ghibellino, il paesaggio circostante.

Veduta del paese con il castello che domina l’abitato

Attestato per la prima volta in un documento del 972, il sito fortificato entrò presto nell’area d’influenza astigiana, come risulta dalle consolidate relazioni tra i vescovi di Asti e i signori di Montemagno, che tentarono per lungo tempo di preservare un proprio spazio di autonomia politica destreggiandosi tra l’espansionismo comunale sul contado e le mire dei marchesi del Monferrato. 

La strada d’accesso al castello

Questi ultimi vennero favoriti dall’imperatore Federico I detto il Barbarossa, che nel 1164 con il diploma di Belforte assegnò loro Montemagno e alcune terre limitrofe aldilà del torrente Versa, insediandosi anche, a fasi alterne, all’interno del castello e amministrandovi la giustizia per oltre dieci anni.   

Il grande ambiente voltato in cui l’imperatore Barbarossa sedeva per amministrare la giustizia e governare il territorio. A sinistra un grande torchio per le uve

Malgrado il ricoscimento imperiale ai monferrini, i signori di Montemagno continuatono a ricercare la protezione degli Astigiani, stipulando nel 1173 un patto di cittadinatico che obbligava il comune di Asti a garantire la difesa del castello con venti cavalieri e venti fanti, una guarnigione nutrita per l’epoca, segno tangibile dell’importanza che il controllo del luogo rivestiva per gli stessi Astigiani, impegnati a contrastare le ambizioni dei marchesi del Monferrato.

Ambienti sotterranei del castello, con le prigioni

Il castello originario, di cui non rimangono tracce, venne completamente ricostruito dopo il saccheggio del 1290 compiuto dalle truppe di Guglielmo VII del Monferrato, che l’aveva assaltato e temporaneamente espugnato (riportano antiche fonti che il marchese “Monte Magnum… devastavit per dies quinque”).

Scorcio del cortile interno dalla singolare forma ellettica, frutto di interventi del primo Seicento

Dalla fine del Quattrocento i Paleologi del Monferrato ripristinarono il controllo sul territorio di Montemagno, che entrò poi a far parte del ducato monferrino, sottoposto alla dominazione gonzaghesca fino alla definitiva integrazione negli Stati Sabaudi avvenuta nel 1708. 

Veduta della struttura esterna, con le merlature ghibelline e gli alti muri a scarpa

Per quanto riguarda la struttura architettonica, l’aspetto più rilevante, oltre alla regolarità solo apparente nella planimetria e nella disposizione degli spazi, è il contrasto stilistico tra gli esterni, che mantengono le sembianze d’una fortezza trecentesca, con il tipico repertorio decorativo dei castelli astigiani, come le fasce decorate a dente di sega nel coronamento delle torri, la sequenza di archetti ciechi sotto la merlatura delle cortine, le finestre con conci alternati di arenaria e cotto, e gli ambienti interni, in gran parte riplasmati nel Settecento per iniziativa dell’allora proprietario, conte Callori, in sintonia con la tendenza alla trasformazione in senso residenziale dei castelli medievali, ormai privati di funzioni militari in un contesto di stabilizzazione del quadro politico seguita alle turbolenze del Seicento piemontese.

I restauri realizzati nel Settecento furono però meno radicali e invasivi che altrove, come si può evincere dalla conservazione in situ di caratteristiche salienti di un’antica fortificazione, tra cui il ponte levatoio.

Poco discosti dall’abitato, su un’altura accanto al cimitero, sorgono invece i suggestivi ruderi della chiesa romanica dei Santi Vittore e Corona, che, originaria dell’XI secolo, è attestata in un documento del 1345 come dipendenza dalla pieve di Grana (le pievanie nell’Alto Medioevo corrispondevano alle attuali parrocchie come unità di base dell’organizzazione territoriale ecclesiastica). Quanto sopravvive dell’edificio, campanile e abside, è pregevole testimonianza della Scuola del Monferrato studiata dal Porter.

Crocevia di influssi padani, provenzali e borgognoni, la corrente architettonica detta del Monferrato, cui sono riconducibili numerose chiese disseminate nelle campagne astigiane e aree limitrofe (in origine attorniate da villaggi e solo in seguito, con l’abbandono e la scomparsa di questi centri abitati, rimaste isolate nella quiete campestre o adibite a chiese cimiteriali), poggia la propria specificità su alcuni tratti distintivi come l’effetto coloristico dato dall’alternanza nella tessitura muraria di conci di pietra arenaria e mattoni, l’assenza di cupole e transetto, la sopraelevazione della zona presbiteriale, l’esuberanza dell’apparato scultoreo e ornamentale, con decorazioni a dente di lupo, dente di sega, a damier, il ricorso a dettagli che rivelano, secondo alcuni, influssi orientali come l’arco falcato e oltrepassato, le paraste angolari delle facciate, che rafforzano lo spigolo e delimitano i volumi, la composizione delle absidi, con la superficie esterna suddivisa in campiture da due o tre lesene, che poggiano su un basamento e portano serie di archetti pensili, le monofore a doppia strombatura che danno luce alla zona absidale, spesso coronate da un “falso” arco.

Ruderi della chiesa romanica dei Santi Vittore e Corona

Tra gli altri elementi di interesse del paese, si segnala il caratteristico reticolo viario del ricetto fortificato, disposto “a mandorla” ai piedi dell’imponente castello, la chiesa di Santa Maria della Cava, in precedenza documentata come Santa Maria di Betlemme, appartenuta al Sovrano Ordine Militare di Malta e ornata nell’area absidale  di pregevoli affreschi datati tra il 1491 e il primo Cinquecento, l’ariosa piazza San Martino, gradevole spazio urbano dominato da una scenografica scalea barocca in pietra di Cumiana, con 48 gradini intervallati da tre ripiani e ispirata nel disegno alla celebre scalinata di piazza di Spagna a Roma, realizzata per dare l’accesso alla chiesa parrocchiale dell’Assunta, in precedenza cappella gentilizia della famiglia Montalero.

La parrocchiale dell’Assunta con il pronao circolare vista dalla scalea barocca

La parrocchiale, riedificata nel 1730 in stile barocco e ampliata in forma circolare con cupola nella prima metà dell’Ottocento, è preceduta da un elegante pronao circolare con dieci grandi colonne ioniche, aggiunto nel 1776 su disegno dell’architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco, che si richiamò nell’ideazione di questa struttura alla chiesa romana di Santa Maria della Pace.

Le attrattive di Montemagno non si esauriscono nell’importanza del patrimonio architettonico o nella dolcezza del paesaggio collinare, ma comprendono anche la produzione vinicola di pregio, che vede nel Ruchè Docg il suo punto di forza.

Il Ruchè, vitigno tradizionalmente coltivato in questo lembo di Piemonte, nei sette comuni astigiani di Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo, Viarigi, dà origine ad un vino dai tratti marcati, insignito della Docg dal 2010. Il disciplinare prescrive l’impiego di uve Ruchè in purezza, coltivate su terreni in prevalenza calcarei e argillosi siti tra 120 e 400 metri di quota, o in combinazione, nella misura massima del 10% (da soli o congiuntamente), con Barbera e Brachetto.

Tra le ipotesi sull’etimologia del nome Ruchè, noto anche come Moscatellina nell’alessandrino, dove è sporadicamente coltivato, c’è chi lo mette in relazione con le ròche (rocche), dossi impervi, scoscesi e assolati prediletti dalla varietà, chi lo fa derivare da roncet, degenerazione infettiva della vite che causa deperimento generale della pianta e verso cui questo vitigno mostra resistenza, e chi, come il Geave, lo lega a San Rocco (San Ròch in piemontese), patrono della locale comunità monastica cistercense che nel Medioevo l’avrebbe importato in zona dalla Borgogna (ipotesi smentita da un recente studio sul DNA della varietà).

Il vino Ruché presenta affinità con il Gamay francese per la “nuance aromatica che contrasta con l’amaro del sorso finale” (Massobrio), mentre lo studioso Gianluigi Bera ne ipotizza la derivazione, se non dal punto di vista genetico, almeno da quello onomastico, dal Care o Cher, varietà minore un tempo presente in Astesana, corrispondente al Cari, uva aromatica a bacca nera attestata sulla collina torinese già al principio del Seicento e tutt’oggi presente.

Fonti bibliografiche e siti internet:

Flavio Conti e G.M. Tabarelli, Castelli del Piemonte Tomo II, ed. Gorlich, 1978

Banca Dati Monferrato, www.artestoria.net