di Andrea Raimondi*
Le vie del centro storico di Invorio (in provincia di Novara) conducono a un punto in cui storia e leggenda si incontrano e si confondono: si tratta della Torre Viscontea, un tempo parte del castello voluto dai Visconti in quanto fortificazione strategica a difesa dei confini meridionali del Vergante.

Nelle segrete della fortificazione, o all’interno della stessa torre, avrebbe trascorso gli ultimi giorni di vita Margherita Visconti, sfortunata moglie di Francesco Pusterla sulla quale aveva messo gli occhi Luchino Visconti.
Non avendo mai ceduto alle richieste del cugino (Luchino e Margherita erano cugini), Margherita fu rinchiusa nella fortezza e, come vuole la leggenda, murata viva in una delle sue stanze. Sempre la leggenda vorrebbe che lo spirito della donna viva ancora, inquieto, e i suoi lamenti terrorizzino gli abitanti di Invorio.

Prima di sottostare ai Visconti, Invorio era compreso nei domini dei conti di Biandrate, poi in quelli dei Pombia, dei Da Castello, dei Casanova e infine, nel XIII secolo, dei Visconti. Le fortune della famiglia milanese, che già nel 900 faceva parte della nobiltà cittadina, mutarono nel 1262 con l’ascesa all’arcivescovato di Ottone e con la nomina dello stesso a signore della città nel 1277.
Ottone nacque a Invorio nel 1207, a quanto pare proprio nel castello visconteo, del quale oggi rimane solo la torre. I Visconti toccarono la loro massima espansione nei nove anni di dominio di Luchino: succeduto nel 1339 insieme al fratello Giovanni al nipote Azzone, morto senza figli, fu solo Luchino che, come scrive Pietro Verri, “da solo disponeva d’ogni cosa”.

La sua politica aggressiva lo portò in pochi anni a ridurre al dominio visconteo diversi territori piemontesi (Asti, Alessandria, Novara, mentre Vercelli si era già sottomessa qualche anno prima), che si andarono ad aggiungere a quelli lasciati da Azzone e trasformarono i Visconti da stato regionale a potenza italiana.
Nei nove anni trascorsi al potere Luchino fu più temuto che amato: temuto per la sua risolutezza e severità nei confronti dei nemici esterni e interni. Il suo principato, oltre agli ingrandimenti territoriali, poté godere di un notevole aumento demografico, crebbero anche l’agricoltura e l’industria e, grazie alle “provvide leggi” da lui volute, le strade di Milano tornarono sicure.

Era un uomo indecifrabile, il cui carattere era un misto di buone e cattive qualità. Secondo il cronista novarese Pietro Azario, egli appariva “austero nell’aspetto e nell’opere, parco nel promettere, largo nell’attendere”.
Era inoltre profondo dissimulatore: Luchino sembrava prendersi cura di poche cose, in realtà si curava di molte. Uomo temuto che a sua volta temeva ritorsioni e vendette personali: per questo si circondava di bravacci armati e si accompagnava con persone del calibro di Mastro Impicca, il boia personale di Luchino, esperto in nodi particolari e strangolamenti.
Anche nella condotta personale di Luchino le ombre prevalevano sulle luci: lo seguiva la fama di uomo prodigo, che si intratteneva più con i prepotenti che con i virtuosi e si abbandonava ai piaceri della carne senza ritegno, disseminando i territori viscontei di amanti e figli, legittimi e illegittimi.

Fu però malaugurato nella scelta delle mogli: nel 1315 sposò Violante di Saluzzo, quartogenita del marchese Tommaso I, ormai quarantacinquenne e già al secondo matrimonio che morì poco dopo le nozze. Tre anni più tardi Luchino portò all’altare Caterina Spinola, figlia di Oberto, signore di Genova e capitano del popolo di Asti nel 1275. Anche Caterina morì un anno più tardi, nel 1319.
Dopo una lunga vedovanza, nel 1331 Luchino scelse la giovane e bella Isabella Fieschi, nipote del pontefice Adriano V ma dalla condotta morale tutt’altro che irreprensibile. Su di lei torneremo più avanti.

Fino a questo punto ci hanno assistito diversi documenti storici, ma da qui in avanti le cose si faranno più complesse poiché la leggenda inizia a insinuarsi nella storia e a confondersi con essa.
I due prossimi protagonisti sono indubbiamente esistiti: Francesco Pusterla era un “nobile ed onorato cittadino milanese” appartenente a una delle famiglie più potenti della città. Figlio di Macario Pusterla e di una non meglio individuata Fina, Francesco divenne presto “uno dei più amabili, più ricchi e più splendidi signori di Milano”, come lo descrive Verri, un aristocratico che “in Milano abbonda più di ogni altro cittadino in ricchezze”, secondo Bernardino Corio.

Francesco prese in moglie Margherita Visconti, “donna di esimia grazia e bellezza”, “la più nobile e la più bella donna di Milano”, figlia di Uberto detto il Pico— feudatario di Somma, Vergiate, Golasecca, Lonate Pozzolo e Ferno (1288), podestà di Vercelli (1290) e di Como (1292)—nipote di Matteo Visconti e dunque cugina di Giovanni e Luchino.
Margherita e Francesco, belli, giovani, erano una delle coppie più invidiate dell’alta società. Trascorrevano una vita spensierata e fastosa, in città ma anche nelle numerose proprietà sparse per la Lombardia. Francesco e il fratello Surleone possedevano una delle più belle case di Milano, disponevano di una vasta proprietà a Carpiano (oggi in provincia di Milano), nonché di diverse terre concesse a titolo feudale dal monastero di Santa Cristina a Chignolo Po, Montemalo e Monteregale. Dall’unione di Margherita e Francesco nacquero tre figli, di bell’aspetto come i genitori: Ambrogio, Filippo e Pagano.

Tutto ciò non doveva andare molto a genio a Luchino, sospettoso del crescente potere dei Pusterla. La storia registra una tentata congiura dei Pusterla, e di altre famiglie milanesi, nei confronti di Luchino Visconti, il cui potere monocratico avrebbe dovuto essere rimpiazzato da un organo collegiale. La rivolta, che si allargò a sempre più gruppi familiari, anche novaresi, scatenò una tremenda vendetta di Luchino.
A questo punto storia e leggenda divergono: la storia descrive Francesco, fautore principale della congiura, in fuga da Luchino presso il papa, ad Avignone. Qui il colpo di genio maligno del Visconti: inviò presso la corte pontificia emissari e consiglieri, i quali, con simulata amicizia, poco alla volta persuaderono il Pusterla di quanto Avignone fosse insicuro e della necessità di tornare in Italia ché il tempo di Luchino era ormai agli sgoccioli.

Gli fecero anche intendere la possibilità di liberare Margherita, arrestata subito dopo la scoperta della cospirazione. Il Visconti, intanto, aveva fatto inviare una serie di lettere persuasive da parte di Mastino II della Scala, il quale invitava a Francesco a raggiungerlo a Verona, dove avrebbe trovato riparo.
Convintosi, Francesco si imbarcò su una nave che fece scalo a Pisa, luogo in cui invece scattò la trappola. Appena attraccati, l’8 agosto 1341, Francesco e i suoi figli vennero arrestati (i pisani temevano le armi di Luchino e ne avevano bisogno contro Firenze), quindi condotti a Milano insieme alla “nobile e virtuosa” Margherita. Sottoposti a processo, furono condannati a morte il 17 novembre 1341 e decapitati, pochi giorni dopo, nella piazza del Broletto nuovo.

Stando alla leggenda, invece, all’origine della macchinazione antiviscontea ci sarebbe l’ostinato e fermo rifiuto di Margherita alle insistite avances di Luchino, ormai stanco della terza moglie e voglioso di nuove conquiste amorose. Informato dell’accaduto, Francesco scatenò una rivolta insieme ad altre famiglie milanesi come gli Aliprandi. Scoperto il piano, Francesco fuggì con i i figli per poi essere riacciuffato e condotto al patibolo, mentre la povera Margherita venne rinchiusa nel castello di Invorio e murata viva in una segreta (se non addirittura, per qualcuno, all’interno della Torre oggi sopravvissuta) poiché negava ostinatamente di concedersi a Luchino.
Per alcuni la leggendà sfociò in suggestione, apparizione, sogno. I contadini del luogo affermarono di aver visto più volte il fantasma della sventurata Margherita, coperta da un lenzuolo bianco, passeggiare intorno alle mura del castello trascinando pesanti catene e piangendo i suoi lutti. La credenza era talmente radicata che pochi invoriesi si sarebbero avventurati di sera per le strade che conducevano al castello.

Molti anni dopo i fatti accaduti, la drammatica vicenda di Margherita ispirò alcune opere di finzione. La più nota è senza dubbio la riduzione romanzesca di Cesare Cantù. Nato in Brianza nel 1804, storico, saggista, prima ancora insegnante e in seguito deputato, tra il 1833 e il 1834, mentre si trovava in carcere poiché sospettato di tramare contro gli austriaci, Cantù compose un romanzo storico, di stampo manzoniano, intitolato Margherita Pusterla.
Pubblicata nel 1838, l’opera in realtà ricordava un “Manzoni senza sorriso”, come lo definì Borgese, grondante di sangue e dolore, più simile a un feuilleton francese che ai Promessi Sposi. L’autore inserisce la vicenda di Margherita e Francesco Pusterla in un quadro pessimista senza lieto fine nel quale nemmeno la religione funziona da ultimo appiglio per i protagonisti.

Non c’è scampo per nessuno: Margherita, imprigionata e poi giustiziata, va incontro al proprio destino senza speranza. Anche quando era in libertà vedeva la propria onestà minacciata e la propria bellezza insinuata da tutte le parti senza riuscire a trovare riparo e consolazione. Perfino Luchino Visconti, il cattivo per eccellenza, un po’ l’equivalente di Don Rodrigo, dopo aver sterminato la famiglia Pusterla è costretto a patire l’amarissimo contrappasso: muore avvelenato mentre i milanesi festeggiano la sua scomparsa.
A metà Ottocento, ispirato alle vicende rievocate nel romanzo di Cantù, il compositore Giovanni Pacini realizzò un melodramma tragico in due atti intitolato anch’esso Margherita Pusterla. A scrivere il libretto fu chiamato Domenico Bolognese, e l’opera, in parte ambientata Milano, in parte sulle rive dell’Adda nel 1340, debuttò al Teatro San Carlo di Napoli il 25 febbraio 1856.
All’opera di Cesare Cantù si rifece, poco più di cent’anni dopo, il regista Carlo Di Stefano, che nel 1967 ricavò una versione radiofonica grazie alla collaborazione dello sceneggiatore Alfio Valdarnini. Il radiodramma fu trasmesso dal secondo canale RAI in quindici puntate, andate in onda dal 7 al 25 agosto 1967. Valentina Fortunato (scomparsa nel 2019) interpretava Margherita Pusterla, Corrado Pani era il marito Francesco, mentre a vestire i panni di Luchino Visconti fu Adalberto Maria Merli (nato nel 1938 e ancora vivente). Completava il cast la Compagnia di Prosa di Torino.

Più recente è stato l’interesse dimostrato dall’associazione di promozione sociale Aquario 2012. Nel mese di maggio 2014 i responsabili dell’associazione decisero di girare un breve film su Margherita Pusterla— prestando, in realtà, maggior interesse alla parte leggendaria della vicenda. Nel film, una giornalista (interpretata da Lores Bartelle) si imbatte in alcune insolite testimonianze di gente del luogo, la quale afferma di aver incontrato una strana donna, scalza e dal lungo vestito bianco, aggirarsi per le strade di Invorio.
Tra visioni, sogni premonitori e vecchi oggetti comparsi all’improvviso, la giornalista (anche grazie all’aiuto dell’allora primo cittadino Dario Piola, che fa una comparsata insieme ad altri invoriesi) riesce a tirare le fila degli avvenimenti e risale alla triste storia di Margherita. Scopre così che la povera donna era stata rinchiusa dal perfido Luchino nella torre che sovrasta il paese e il suo spirito, di tanto in tanto, percorre senza pace le vie di Invorio alla disperata ricerca dei suoi cari.
Torniamo alle vicende storiche di Luchino e della terza moglie, Isabella Fieschi, prima lasciate in sospeso. Dopo i Pusterla, la rabbia del signore di Milano si abbatté sui propri nipoti, figli del fratello Stefano, ossia Matteo, Bernabò e Galeazzo, poiché sospettati di complicità nella congiura. Secondo Verri, Luchino doveva dubitare particolarmente di Galeazzo, per alcuni troppo intimamente legato alla terza consorte di Luchino, con la quale avrebbe addirittura generato un fanciullo, Luchino Novello, che alla morte morte di Luchino Visconti fu costretto a rinunciare alla discendenza.

Quanto a Isabella Fieschi, come accennato, la donna era bella almeno quanto Margherita ma, al contrario di quest’ultima, stando alle cronache dell’epoca, era dissoluta e facile al tradimento come il marito.
Secondo Azario, nel 1347 a Isabella fu consentito di recarsi a Venezia “come una imperatrice” alla guida della delegazione milanese. Dopo essere stata ricevuta dal signore di Verona, Isabella raggiunse Venezia dove, secondo le voci del periodo, si sarebbe unita carnalmente al suo futuro amante, il doge Andrea Dandolo.
Da questo viaggio “nacquero di molti scandali” che giunsero agli orecchi di Luchino, il quale promise di fare a Milano “la giustizia più grande che mai fatta avesse, con bellissimo rogo”. Senonché Isabella riuscì a scampare al regolamento di conti voluto dal marito per la sopraggiunta morte di quest’ultimo. Come questa sia avvenuta, l’Azario non dice, ma altri lasciano intendere che Luchino sarebbe stato avvelenato proprio da Isabella.
Comunque siano andate le cose, il Visconti morì il 24 gennaio 1349 a cinquantasette anni dopo averne trascorsi più di nove come temutissimo signore di Milano.

Dopo il trapasso del marito, Isabella abbandonò Milano con il figlio Luchino Novello per riparare a Genova, mentre Giovanni Visconti succedette al fratello governando in maniera opposta rispetto al predecessore: abbandonò il pugno di ferro, si impegnò a tessere alleanze e a stipulare rapporti pacifici con i vicini (in particolare con i Savoia e con i Monferrato) e richiamò dall’esilio i nipoti Matteo, Bernabò e Galeazzo. Insomma, governò senza la rabbia e quei sospetti che costarono la vita a Margherita e ai suoi familiari.
Bibliografia
Azario P., Liber gestorum in Lombardia, a cura di F. Cognasso, Bologna, Zanichelli, 1926-39.
Corio B., Storia di Milano, Vol. II, Milano, Lombardi, 1856.
Verri P., Storia di Milano, Vol. II, Milano, Oliva, 1850.
Ringrazio Loredana Lionetti e Guido Facchinetti dell’associazione Aquario 2012 per avermi donato una copia del film da loro realizzato.
*Nato a Novara nel 1975, laureato in Lingue e Letterature dell’Europa e delle Americhe presso l’Università del Piemonte Orientale, Andrea Raimondi ha conseguito il dottorato in Italian Studies presso lo University College Cork (Irlanda). Insegna lingua inglese nelle scuole secondarie e collabora con RivistaSavej. Tra le pubblicazioni più recenti: The Invisible Bridge between the United Kingdom and Piedmont, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle Upon Tyne, 2019; Il multilinguismo degli scrittori piemontesi – Da Cesare Pavese a Benito Mazzi, Edizioni Grossi, Domodossola, 2018; Emigrazione piemontese – Una storia che si ripete, in Rapporto Italiani nel Mondo 2017, a cura di Delfina Licata per Fondazione Migrantes, Tau Editrice, 2017.